Un Natale a tavola con Giovanni Pascoli

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“Siamo tutti e due raffreddati e tossicolosi.  Fa che ci sia in casa un buon brodo con una minestrina di casa, e sopra tutto, fuoco e fuoco e fuoco”. Così scriveva Giovanni Pascoli alla domestica Attilia Caproni per annunciare il suo imminente arrivo a Castelvecchio, assieme alla sorella Maria, in occasione del Natale 1906.

Non era così scontato che i fratelli Pascoli trascorressero le festività natalizie sul colle di Caprona, da dove talvolta mancarono per motivi di distanza geografica (ad esempio, quando Pascoli insegnava a Messina) o per problemi di salute (in alcuni casi, negli anni bolognesi).

Ad ogni modo, ovunque si trovassero, Giovanni e Maria non mancavano di santificare le feste anche al tavolino.

Il piatto principale del Natale pascoliano erano senza dubbio i cappelletti, che Mariù preparava con le proprie mani. Anche il cagnolino Gulì, sebbene di origini toscane, era stato educato dalla famiglia romagnola ad apprezzare i cappelletti, come ci mostra il poeta in una scherzosa lettera indirizzata a Maria (1° dicembre 1894): “Gulà, e’ tu linguin l’è un po’ sfazzadin, e’ tu cudin l’è un po’ birichin (il tuo linguino è un po’ sfacciatino, il tuo codino è un po’ birichino) e’ tu corizìn l’è come quel di Mammaluchìn e Duchìn (il tuo cuoricino è come quello di Mariù e Ida). Al tu urcini a l’iè dagli urcianazi longhi longhi (le tue orecchine sono orecchiacce lunghe lunghe). La cadnina a l’avrò in bascoza e a tla mitrò per turner a casina (il guinzaglio l’avrò in saccoccia e te lo metterò per tornare a casina) dov cui sarà i caplitòn caplitàz, brot biricon d’un urcianàzz (dove ci saranno i cappellettoni cappellettacci, brutto birichinaccio di un orecchionaccio)”.

Un’altra pietanza che non poteva mancare a tavola dei fratelli Pascoli per Natale era la carne, sulla cui preparazione il poeta si sprecava in raccomandazioni: così al parroco di Castelvecchio don Alfredo Benvenuto Barrè, al quale Giovanni e Mariù avevano regalato, per il Natale 1911, un cappello del prete (insaccato tipico del Modenese così conosciuto per la sua forma che ricorda un tricorno, copricapo un tempo utilizzato dagli ecclesiastici): “Don Benvenuto! Le mandiamo un cappelletto di Modena, detto altrimenti cappello da prete, per la sorprendente somiglianza di forma, non però di sostanza. Si cuoce tenendolo dalla sera innanzi immerso nell’acqua tiepida, e la mattina bollendolo per due ore o tre. Così viene gelatinoso e tremolante, e a chi piace è buono. Lo gradisca, come tenue compenso al suo buon dolce, e lo mangi… non lo metta. Non è per il capo, è per la gola”. Stessa preoccupazione per la cottura del classico cotechino natalizio: Pascoli si profonde con Attilia Caproni in consigli sulla cottura, che deve essere fatta “a fuoco lento, in modo che non si rompa, e che si spappoli proprio in bocca”; e ancora: “Per la sera prepara una bella sfoglia, di quattro o cinque uova, per far la pasta asciutta. Provvedi un po’ di burro, ammazza un pollo che terrai per il giorno dopo, compra un mezzo kilo di carne (…). Dunque per la sera di domenica, sfoglia di pasta, un po’ di burro, il coteghino al fuoco.  Cuoci anche sette o otto patate lesse, e lasciale calde. Quella sera mangeremo  le tagliatelle al sugo (il sugo lo faremo noi col sughetto e il fegatino del pollo e con un po’ di carne magra) e il coteghino con la purèe (la faremo noi con le patate lesse e il burro e il latte). Per il giorno dopo, resti la carne da brodo e il pollo” (15 dicembre 1907).

La carne era talmente abbondante che il poeta arrivava addirittura a lamentarsene con l’amico Alfredo Caselli: “Ho una madia piena di carnaccia! Natale, giorno dopo, domenica! Non ne possiamo più. Odio il cibo, i fornelli, tutto” (27 dicembre 1903).

Se il giorno di Natale (e i successivi) erano consacrati alla carne, la Vigilia era rigorosamente votata al pesce, che il poeta si faceva arrivare da Livorno. A volte ad omaggiarlo erano anche gli amici, come ad esempio fece il 23 dicembre 1911 il nostro grande emigrante Pietro Funai, il “Pitone” che, come ringraziamento per il dono di una copia del discorso “La grande proletaria si è mossa”, in tutta risposta fece recapitare a Pascoli, giusto in tempo per la sera del 24, una colossale trota pescata nel lago di Turrite.

E i dolci? Giovanni e Mariù aspettavano puntualmente approvvigionamenti dagli amici cittadini: torroni, torroncini, panpepato. Il classico panettone di solito proveniva dal fratello Raffaele; una volta, addirittura, un panettone arrivò in dono da d’Annunzio che Maria ringraziò con una “mirabile odicina”.

Si preparava la befana (il biscotto) a Casa Pascoli? È una domanda a cui non abbiamo ancora risposta, anche se nella novella dedicata alla vecchina, Giovanni non manca di rammentare quei “cuori, galletti, castagnette di pasta”, “così belli” da farsi ammirare anziché mangiare. Magari in compagnia, a veglio, come nella novella “Il ceppo”, dove i padroni di casa partono a sera con la bottiglia del rum sotto braccio, per andare a bere il ponce dai vicini.

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