In tanti mi hanno chiesto perché, sulla copertina di Undici ragazzi, a osservare incantati il potente spettacolo della Natura e della Bellezza siano proprio il numero nove e il numero dieci. Rispondo qui semplicemente che il mio è un racconto sul calcio e sull’amicizia. E l’amicizia tra il numero 9 e il numero 10 è un classico del calcio. Tra la prima punta e il centrocampista più avanzato scatta alle volte un’intesa perfetta, quasi magica, che trae origine da un rapporto privilegiato anche fuori dal campo.
Johnny Moscardini e Adolfo Baloncieri si erano conosciuti in nazionale nel maggio del 1922 in occasione di una partita Italia-Belgio finita con la vittoria degli azzurri per 4 a 2. Già in ritiro avevano fatto amicizia. Avevano la stessa età, avevano fatto tutti e due la guerra al fronte e tutti e due amavano un football raffinato, fatto di tecnica, palla a terra, smarcamenti veloci. La loro affinità fu subito evidente sul campo, dove risultarono autori di tre gol (due Baloncieri, uno Moscardini).
Moscardini non aveva il fisico del centravanti. Non era per niente alto, e aveva anche una vistosa menomazione al braccio, ricordo della vita di trincea. Ma possedeva, oltre a una quasi ottimale preparazione di base, anche un temperamento straordinariamente combattivo e una grande visione di gioco, oltre al senso del gol. I suoi provenivano da una minuscola frazione dell’alta Val di Corsonna, nel comune di Barga – poche casupole sparse tra i castagni dell’appennino – e, prima di emigrare in Scozia, in casa saltavano da un travicello all’altro e campavano rosicchiando castagne, proprio come nella celebre iscrizione del Pascoli, che quella valle l’aveva appena dietro casa. Per la verità Johnny in nazionale ci arrivò grazie a una serie di circostanze che hanno dell’incredibile. Non per niente la sua zia prediletta, che stava alla Chiesetta, si chiamava Fortuna. Ma le occasioni le sapeva cogliere, e già all’esordio in Svizzera nel 1921 aveva segnato il gol decisivo.
Moscardini era forte, ma Baloncieri era più forte. Anzi, il più forte. Secondo qualcuno, la più grande mezzala di tutti i tempi, eguagliato forse soltanto da Valentino Mazzola. Uomo da gol e da ultimo passaggio, ma capace di fare il regista a tutto campo grazie a una corsa inesauribile e a una capacità di leggere la partita del tutto fuori dal comune.
Lucca, marzo del 1923. Mussolini è capo del governo da meno di cinque mesi. Puccini in Versilia lavora alacremente alla Turandot: non farà in tempo a terminarla, ma le sue arie (in particolare il nessun dorma, che diventerà così caro agli sportivi) presto faranno il giro del mondo. Dedo Modigliani è morto da tre anni, in un freddo gennaio parigino, malato e quasi in miseria, e snobbato dalla sua Livorno. Alla fine svendeva le sue tele stupende per pagarsi i pasti al bistrot. E’ un momento che con l’arte non si campa, e nemmeno con lo sport. Dunque marzo 1923, un pomeriggio della seconda decade: poco prima di primavera, avrebbe detto Ungaretti, che come Moscardini era nato all’estero ma aveva le sue radici in lucchesia, e aveva combattuto sul Carso, dove aveva scritto le sue poesie più belle. In quel diciotto marzo la Lucchese di Moscardini ospita l’Alessandria di Baloncieri. Maglia rossonera con il numero nove per Johnny, maglia grigia col numero dieci per Adolfo, la stessa che indosserà molto dopo, all’inizio della sua strabiliante carriera, un certo Gianni Rivera. Adolfo Baloncieri, che nella stagione precedente aveva segnato quindici gol, è temutissimo: il mister lo affida alle cure di un difensore ruvido, che proviene da Carrara e curiosamente si chiama Ercole. Il trattamento riservato a Baloncieri è talmente violento che Moscardini, disgustato, abbandona il campo lasciando in dieci uomini la sua squadra, che alla fine perderà per due a zero subendo il secondo gol proprio da Baloncieri. Un gesto di fair-play clamoroso e forse unico nella storia del calcio, raccontato nel bel libro di Duccio Casini e Luca Tronchetti Mi ritorni in mente. Lucchese tra storia e leggenda edito da Tralerighe.
Moscardini è istintivo e imprevedibile, e non soltanto sul campo. La sua mossa lascia sconcertati i compagni e il mister, ma rafforza il legame con Baloncieri. A maggio i due sono ancora insieme, sul treno per Praga. Gli azzurri vanno ad affrontare la forte compagine ceca, ma sarà una trasferta disgraziata, ricordata solo per la gigantesca rissa scatenata in un locale della capitale boema. Forse provocati, gli italiani le buscano in campo e fuori: la partita termina con la sconfitta dell’Italia per uno a cinque, e il gol della bandiera lo segna proprio Moscardini.
Per Johnny e Adolfo, la primavera di Praga ha il sapore amaro della sconfitta, come lo avrà per Jan Palach quarantacinque anni dopo. Riaffiorano i fantasmi di Caporetto. Ma la disfatta, come la vittoria, non è mai definitiva. I due non si scoraggiano, e nel viaggio di ritorno si leccano le ferite e preparano le loro rivincite. Quella stessa estate sono chiamati dal Genoa, fresco di scudetto, per rinforzare la rosa in vista di una lunga tournée in sudamerica per incontrare i tanti emigranti. A fare il loro nome è il compagno in azzurro Renzo De Vecchi, il figlio di Dio, il piccolo grande Capitano. E’ un vero onore. E’ il Genoa dell’ottavo scudetto, il club più prestigioso della giovane storia del calcio italiano. Il viaggio verso il Mar del Plata, sul transatlantico Principessa Mafalda, è molto lungo, con scali a Barcellona, Dakar, Rio de Janeiro. Johnny e Adolfo sono insieme, e si divertono, forse conquistando anche qualche cuore. Sono una coppia ben assortita. Baloncieri è un bel ragazzo, un po’ introverso, ma ha carisma e classe da vendere anche fuori dal campo. Moscardini non è bello, ma è una simpatia. Ha modi semplici e diretti ed è anche un ballerino formidabile, poi conosce perfettamente l’inglese. Tutto fa brodo, quando c’è da far colpo sulle ragazze. L’arrivo a Buenos Aires è da brividi. Allo sbarco, oltre naturalmente all’ambasciatore, ci sono migliaia di connazionali in festa. E’ un tripudio di cene, ricevimenti, serate danzanti. Tra le diverse amichevoli disputate, spicca una vittoria con la nazionale argentina, che colma d’orgoglio gli emigranti, compresa forse la famiglia dei Togneri, proprietaria a Barga della bella Villa Buenos Aires alla Fornacetta.
Al ritorno le strade di Baloncieri e Moscardini si dividono: uno torna nella sua nebbiosa Alessandria, l’altro nella sua ridente Barga, in attesa di quella che sarà la sua ultima annata nella Lucchese, che lascerà alla fine della stagione successiva dopo avervi disputato 51 partite e segnato 40 gol, per passare al Pisa. Così anche per Moscardini i fiumi sono quattro, come quelli famosi di Ungaretti. Per il poeta il Serchio, il Nilo, la Senna, l’Isonzo. Per il goleador ugualmente il Serchio e l’Isonzo, e diversamente la Corsonna e ora l’Arno. In riva all’Arno Johnny però s’innamora, e il suo rendimento ne risente. Quella di Pisa si rivelerà una stagione deludente e Moscardini perderà anche il giro della nazionale. Ma le preghiere da lontano della zia Fortuna, e forse anche una parola buona di Baloncieri, fanno in modo che sia di nuovo convocato nel marzo del 1925 per una partita con la Francia. Manca Della Valle, il centravanti titolare, e tocca di nuovo a Johnny indossare, per l’ultima volta, la maglia azzurra con il numero nove. Baloncieri gioca con il numero otto, ma fa lo stesso. Italia-Francia sarà una partita destinata a rimanere nella storia. Per gli azzurri in porta gioca un giovanissimo Combi, che nove anni dopo sarà capitano della nazionale mondiale di Vittorio Pozzo. In difesa il veterano De Vecchi, ultima partita anche per lui, chiude tutti gli spazi. Davanti alla difesa gioca con grande sicurezza il giovane romano Fulvio Bernardini, esordiente a 19 anni. Ma a fare la differenza, là davanti, sono ancora una volta Moscardini e Baloncieri, autori alla fine di una doppietta ciascuno per un 7-0 rifilato ai cugini d’oltralpe che ha del clamoroso e che, oltre a soddisfare il palato fine dei tifosi di Torino, è una manna dal cielo per la propaganda fascista, la cui macchina comincia ora a mettersi in moto.
Johnny torna a Barga da trionfatore, e riceve i complimenti anche del podestà Morando Stefani, che non ama il football ma la lotta libera, la boxe e il gioco del bracciale. Però ama anche i giovani, e promette loro un vero campo da gioco, in erba e non in terra battuta. Stefani è un Operaio del Duomo, della cui ricostruzione ha fatto la sua missione. Un fascista sui generis, con tutti i difetti del caso, amato e detestato, ma barghigiano fino al midollo, e in grado di fare un passo indietro di fronte all’infamia delle leggi razziali. Comunque i ragazzi di Barga avranno il loro prato verde, in via della Crocetta, dopo le ultime case del Giardino.
Italia-Francia, per Moscardini e Baloncieri, sarà l’ultima partita insieme. Lo spartiacque di due destini che non s’incroceranno mai più. Per Baloncieri è l’inizio di un’ascesa inarrestabile: il passaggio al Torino, il trio delle meraviglie, lo stadio Filadelfia nuovo di zecca e gremito in ogni ordine di posto. Tante partite e tanti gol ancora, con la maglia granata e con quella azzurra. Per Moscardini è diverso. La sua giovane compagna, Tecla, aspetta un bambino. Bernardini gli propone di seguirlo nella capitale, nella sua Lazio, ma Johnny non se la sente di affrontare un salto nel buio. Ha ventotto anni (tanti per un giocatore di allora) ma soprattutto un fisico provato da una vita non proprio comoda. Guarda le belle ville liberty costruite dagli emigranti con i soldi guadagnati all’estero e alla fine decide di tornare in Scozia, dove uno zio gli ha proposto di dargli una mano nel suo caffè.
L’esperienza di Johnny Moscardini in Italia è durata in tutto undici anni, dal 1915 al 1925. Undici come la squadra di calcio. Sono stati anni intensi e avventurosi, pieni di emozioni: ce ne sarebbe abbastanza per scrivere un romanzo, o forse ancora di più la sceneggiatura di un film. E quel film Johnny lo rivede mentalmente durante il viaggio verso la terra natale. L’arrivo in Italia, la guerra, il disastro di Caporetto, le ferite, la convalescenza in Sicilia, Barga e il suo Barga. E poi la Lucchese, il terribile terremoto del ’20, la zia Fortuna, la chiamata in nazionale e il gol all’esordio, l’amicizia con Baloncieri, l’avvento del fascismo, il fair-play, la batosta di Praga, la trionfale tournée con il Genoa, e poi Pisa, il grande amore, di nuovo la nazionale, i gol alla Francia, il bambino in arrivo, l’addio ai sogni di gloria e al bel paese.
Per la cronaca, Johnny continuerà a giocare anche in Scozia, nelle pause dal lavoro, con i dilettanti dell’Old Boys, senza rimpianti e senza perdere il suo chiaro sorriso. E senza perdere il vizio del gol, diventando ben presto anche lì una leggenda, al punto che ancora ai giorni nostri i ragazzi di Campbeltown lo ricordano e lo evocano con lunghe e appassionate poesie.
continua
pier giuliano cecchi
5 Febbraio 2020 alle 1:42
Complimenti Paolo per l’efficace articolo che ben inquadra un barghigiano come Johnny Moscardini e non solo lui. P.G. Cecchi
Marco Tortelli
6 Febbraio 2020 alle 10:54
Mi associo ai complimenti di Pier Giuliano. È sempre un piacere leggere qualcosa di Paolo, sia per la forma che per il contenuto: sono storie interessanti, dotate di un’anima propria e scritte molto bene.