Ci sono voluti due anni prima che qualcuno, finalmente, dedicasse una mostra al nostro Sergio Fini. Certo, prima è dovuto passare il tempo del dolore. Di una dipartita così improvvisa. Però, solo grazie al coraggio e all’intelligenza di un gruppo di signore che il 27 settembre ha aperto, presso il Ciaf di Gallicano, una mostra che lo ricorda assieme a Mario Bargero, pittore e scultore di notevole bravura.
Fini negli ultimi anni si era molto legato alla cittadina sull’altro lato del Serchio, qui aveva dato il via a “Galliart” festival di arte contemporanea. Nella mostra sono raccolte le sue ultime opere, quelle dedicate agli alberi. Quadri potenti ed emozionanti raccolti in una sola stanza dove fa una certa impressione entrare. I muri bianchi accentuano ancora di più la forza creatrice delle opere. La stanza chiusa dalla quale si accede attraverso una piccola porta contribuisce a creare un luogo ovattato, lontano. Quasi un grembo dolce e protettivo dal quale si esce arricchiti nell’anima.
Ma anche con una tristezza venata da un’amarezza che si fa forte. Amarezza dovuta a una morte prematura, sofferta. Amarezza perché non potremo più ammirare le sue (nuove) opere. Amarezza perché non potremo avere i frutti della stagione adulti della sua pittura. Fini, infatti, era arrivato a una notevole maturità pittorica dopo anni e anni di studi. Erano quarant’anni che dipingeva. Ma negli ultimi tempi era giunto a una sintesi che univa i suoi primi lavori tendenti al figurativismo ai lavori astratti e concettuali. Riusciva a unire colto e popolare.
In effetti questi ultimi quadri di Sergio sono appetibili a una notevole fetta di pubblico. Li realizzava in una specie di trance con le dita intinte di colori. Già perché non usava pennelli ma le mani. A volte, anche, a occhi chiusi: era il cuore, la sua anima a scegliere i colori. Venivano fuori opere realizzate in un tempo relativamente breve. Frutto di un momento, su cui non ritornava. Quello che era fatto era fatto. Basta. Non si poteva tornare e correggere. Si doveva continuare, guardare avanti. Quello che era venuto fuori era frutto di quel momento e di quello stato d’animo. Sbagliato o giusto che fosse. Bello o meno. Era frutto di un sentimento.
Lavori, quindi, coraggiosi, onesti. Soprattutto nel periodo odierno in cui molti così detti artisti rifuggono dalla tecnica e dalla manualità nascondendo le loro inabilità dietro ad astrusi concettualismi vuoti e inutili, oppure rispetto a certi imbarazzanti lavori digitali che sempre più affollano le mostre contemporanee, lavori realizzati su uno schermo freddo. Potendo correggere e tornare indietro innumerevoli volte. A Sergio queste cose non piacevano. Piacevano le cose concrete. I colori, i pennelli, le tele. Le mani che si tingevano e si imbrattavano. Amava le cose vere, non quelle finte. Voleva incontrare le persone, guardare negli occhi magari con quella specie di strana timidezza che lo caratterizzava. Era un puro.
E come tutti i puri non ha avuto vita facile. Raccontava che presto a scuola i professori, senza dirgli niente, iniziarono a prendersi i suoi disegni. Più tardi, non gli era piaciuto l’ambiente delle gallerie: ambiente falso, patinato, ipocrita e modaiolo per antonomasia e per questo aveva scelto di fare mostre autonome in piccoli posti, facendo tutto da sé. A ben vedere la sua arte ma, soprattutto, il suo portafoglio ci avevano rimesso per questa sua scelta, radicale.
Ma lui era coerente, non scendeva a patti su certe cose. L’arte per lui era il suo luogo di pace e non poteva barattarla con niente. L’arte come per tutti i pittori seri era anche tormento, quello dovuto all’insoddisfazione per i lavori. Diceva un maestro di danza classica che l’artista è triste e insoddisfatto perché cerca la perfezione. A Sergio, probabilmente, non interessava la perfezione ma la pace interiore, il sentirsi parte di tutto, l’avere dentro sé la luce degli altri, la luce di tutti. E aveva trovato negli alberi il simbolo di questo suo percorso prima di tutto spirituale e solo in un secondo momento artistico.
Andava per boschi e li abbracciava. Diceva: “abbracciare un albero mi riempie dell’humus della Terra che sale al Mondo per colmare i vuoti di sentire”. Confessò, un giorno: “Gli alberi hanno accompagnato i miei passi, comunicandomi vita. Mi coccolano con fare materno lasciando che corra con fantasie e passi maldestri, cercando la loro anima con la mia assieme. Ritraggo alberi perché tutti loro sono in me”. Consigliò, anche, di cercarlo “nelle striature di colore ed ovunque ci sia anche una sola foglia, quella porterà con se una piccola parte del mio pensiero, del mio essere natura con voi e per voi”. Ma, Sergio, lo possiamo cercare e trovare anche, oseremmo dire, soprattutto, nelle sue opere in quegli alberi dolci e possenti (come lui) creati in preda a un’ansia di vita.
La retrospettiva sarà visitabile fino al 13 ottobre dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18 e ci auguriamo che, una volta chiusa la tappa gallicanese se ne possano aprire altre, per ricordare due grandi artisti a modo loro legati alla nostra terra.
I lavori di Sergio Fini, tra l’altro, sono in cerca di una sistemazione permanente e la speranza è quella di poter trovare uno spazio idoneo ad ospitare oltre 800 dipinti, magari, rendendoli fruibili dal pubblico.
Tag: pittura, sergio fini, mario bargero, mostra
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