Pochi giorni fa, sulle pagine di questo giornale, parlavamo dei “nostri Alpini” della loro importanza a livello sociale, un tesoro per il nostro territorio. La proposta, del nostro direttore Luca Galeotti, di conferirgli un meritatissimo San Cristoforo d’Oro, speriamo non cada nel dimenticatoio.
Perché senza troppi giri di parole i nostri Alpini se lo meritano. Per il loro lavoro portato avanti con dedizione e gratuità. Ma quello della nostra Valle non è un gruppo isolato, le sezioni dell’Associazione Nazionale Alpini di tutta Italia, infatti, portano avanti un lavoro incredibile come ben evidenziato nel libro di Giovanni Lugaresi “Alpini di Pace. Mezzo secolo sul fronte della solidarietà” edito da Il Prato e giunto alla quarta edizione.
Proprio in questi giorni Lugaresi, noto giornalista, per anni caporedattore de Il Gazzettino, è tornato in Russia per celebrare i venti anni dell’Operazione sorriso a Rossosch, in Russia. A cinquant’anni dalla battaglia di Nicolajewka gli alpini italiani scelsero per celebrare i loro morti di costruire un asilo che fu inaugurato il 19 settembre 1993.
L’Operazione sorriso non è l’unica e importante svolta dagli Alpini, anzi, forse è la più nota ma in un lungo elenco di storie belle che Lugaresi nel suo libro ripercorre con precisione e passione.
Durante grandi calamità nazionali e internazionali da Bassano del Grappa al Friuli, dall’Europa all’Africa, dalla Francia all’Armenia. Gli alpini, spiega Lugaresi, “missione dopo missioni si sono sempre più migliorati riuscendo ad avere una struttura efficentissima che non pesa minimamente su altre strutture né per il cibo né per l’appoggio logistico”.
Sono gente strana gli alpini. Gente per cui il servizio militare non è stato una parentesi ma un continum, parte integrante della vita. Gente che parla “di Patria senza retorica, di nazione e non di paese”. Gente tenace. Gente che tiene a quello strano cappello. Gente che il sacrificio ce l’ha nel sangue come ricordava don Carlo Gnocchi, cappellano militare durante la guerra e dopo instancabilmente dedicato ai suoi “mutilatini”: i piccoli invalidi di guerra (e non) aiutati attraverso una rete di collegi in molte città italiane.
Sono diventati epici anche grazie ai bellissimi racconti di Giulio Bedeschi e Mario Rigoni Stern. La storia degli alpini è fatta di sangue, sofferenza, dolore ma anche di altruismo, fratellanza, solidarietà.
Parole, queste ultime tre, fondamentali per i gruppi Ana. Ogni anno dal 1919 si ritrovano nell’adunata nazionale (ogni anno in una città diversa con un edizione anche all’estero nella Tripoli italiana). Oltre 300 mila “pennenere” invadono la città (ogni anno diversa) sfilano, suonano, si divertono e il giorno dopo se ne vanno e la città si ritrova pulita e ordinata “il sabato allegria latina la domenica disciplina prussiana” afferma il generale Cesare di Dato.
A cosa servono le adunate? Servono per ricordare chi, come dicono loro, “è andato avanti”, per onorarli. Ma gli alpini sono uomini non di parole ma di fatti, e ai discorsi retorici preferiscono gesti concreti e schietti. Ricordare sempre ma in maniera concreta. Sì, ma come? La risposta sta in uno dei tanti striscioni che sfilano: “Onorare i morti aiutando i vivi”.
Questo è il concetto che sta alla base delle operazioni Ana. Quindi, non solo statue, cippi, targhe ma, soprattutto opere utili agli altri, magari, in contesti difficili così come avrebbero voluto coloro che “sono andati avanti”.
Tra le file dell’Ana vi sono muratori boscaioli, elettricisti, carpentieri ma anche geometri, ingegneri, architetti. Tra di loro, come ben descrive Lugaresi, si annullano le classi sociali, sono banditi gli snobbismi, allontanate le retoriche e le utopie vane. Tutti uniti per un fine preciso, concreto. Gli alpini dell’Ana non sono “ex” ma alpini, a tutti gli effetti: altra faccia della stessa medaglia. Quella di un’Italia pulita, onesta che crede negli ideali e non protesta, non blatera, non si incattivisce ma lavora per il bene comune, in silenzio, senza squilli di tromba.
E così, ogni qual volta se ne presenta l’occasione gli alpini non se lo fanno ripetere due volte, si rimboccano le maniche e via… Già, perché gli alpini non appartengono come dice nella sua bella prefazione al libro di Lugaresi, Carlo Sgorlon a quelli che lui definisce “protestatari”.
Sgorlon, infatti, si dice convinto che “chi vuole migliorare il mondo lo fa dentro il proprio ambito privato. Se uno svolge la propria attività professionale nel modo più onesto ed efficace, se riesce a entrare nel volontariato e a realizzare la solidarietà, certamente contribuisce a lasciare alla sua dipartita un mondo po’ migliore di come lo ha trovato alla nascita, almeno nell’ambiente ristretto e minuscolo che lo riguarda”.
E gli alpini senza ascoltare i disfattisti vanno avanti onorano i morti, aiutando i vivi. I più deboli, quelli in difficoltà. A Zenica, a sessanta chilometri da Sarajevo, hanno costruito una “scuola per l’Europa” in cui tre etnie (bosniaci di religione musulmana, croati di religione cattolica e serbi ortodossi) convivono. Tutti assieme compagni di banco in una collaborazione pacifica che la guerra aveva spezzato nelle vite dei loro padri.
Quando nel 1999 la Dordogna (zona a ottocento chilometri dal confine di Ventimiglia) fu sconvolta da un vero e proprio cataclisma, con raffiche di vento fino a 150 chilometri orari e piogge violentissime, abbattimento di alberi e interruzione di linee elettriche e il governo francese lanciò un Sos a quello italiano ed ebbe una risposta nel giro di ventiquattr’ore, con l’invio di 236 volontari che lavorarono per 1.916 giornate operative complessive, sgombrando 336 chilometri di strade e tagliando oltre 16 mila metri cubi di legname.
Quando avevano visto arrivare gli alpini, le autorità francesi, erano molto titubanti, quando li videro andarsene gli abitanti di quelle zone avevano gli occhi pieni di lacrime e gratitudine. Il presidente francese Jacques Chirac telefonò al presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi. Il console generale di Francia a Milano, Alain Rouillard, disse: “Conserveremo un ricordo imperituro del vostro aiuto”.
E un ricordo “imperituro” del loro aiuto ce lo ha anche la nostra gente. Furono tra i primi ad accorrere nel 1996 dopo la maledetta alluvione. Come sempre, non si smentirono. Lavorarono duro, aiutarono, alleviarono contribuendo in maniera fondamentale a sopportare quei giorni. Un motivo in più per conferirgli, nel nostro piccolo, un’onorificenza quanto mai giusta e appropriata che vada a rendere onore non solo al nostra sezione ma a tutto il gruppo dell’Associazione Nazionale Alpini.
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