C’era una volta in Valle del Serchio

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Lo ammetto: mi sono avvicinato a “Castello 1908”, secondo volume edito dalla neonata Garfagnana Editrice, con un pizzico di pregiudizio: pensavo si trattasse di un racconto, sicuramnente scritto in modo corretto ma che non presentasse elementi tali da giustificarne una buona recensione. Influiva, probabilmente, il fatto che l’autore,  Roberto Andreuccetti, pensionato di Poste Italiane, fosse qui al suo primo romanzo.

Sono bastate le prime pagine, però, perchè ogni mio preconcetto svanisse, rapito dalla scrittura semplice ed efficace di Andreuccetti (da cui molti noti scrittori che affollano gli scaffali degli autogrill e i patinati premi letterari avrebbero molto da imparare) che racconta in un ponderoso libro di oltre 400 pagine (che si leggono in un soffio lasciandoci alla fine quella malinconia che si ha solo con certi libri) la storia di suo nonno, Roberto, appena sposato e con un figlio in arrivo, che vive insieme alla sua sposa con i genitori e i sette fratelli nel borgo di Castello- luogo fisico e metafora al tempo stesso- un gregge di case raggiungibili solo attraverso una mulattirera che sale da Valdottavo. A causa della miseria e dell’arroganza di un ricco proprietario, Roberto, decide di andare a cercare fortuna là, in America. Una scelta sofferta, ma necessaria per dare un futuro al suo bambino appena nato e a sua moglie Fulvia (coprotagonista del romanzo assieme al marito) che dovrà rimanere sola, ad accudire i vecchi e a rifiutare le provocazioni del ricco proprietario terriero.

Una storia di dolore e fatica, quindi.

Ma “Castello 1908” non è un semplice romanzo, forse, il suo merito più grande è quello di essere un documento di un tempo ormai, irrimediabilmente, perduto. Una sorta di “come eravamo”. Una vivida “fotografia” sociale e storica di una zona all’epoca-siamo agli inizi del Novecento- depressa e poverissima. In cui migliaia di persone trascorrevano una vita di fatica sempre con il morso della fame che certo non si placava con le povere cene a base- quasi sempre- di necci. La carne era una vera rarità. Le castagne come sappiamo ce n’erano in abbondanza tanto da garantire cibo per tutto l’anno ma con  la poca farina di grano che si produceva, ci si poteva permettere di fare il pane solo ogni quindici giorni. Un tempo in cui gli odori dovevano essere forti. Ci si lavava, per intero, una volta a settimana in un grande bagno di mastello. Alla sera si stava davanti al fuoco, poco tempo, per non consumare legna e poi si andava a dormire nel letto composto da un materasso di foglie di granturco. Le feste e il poco tempo libero si passavano all’aperto ad ascoltare i maggi e i bruscelli (rappresentazione canzonatoria che veniva proposta nel periodo di carnevale) o all’osteria.

Usanze, costumi, situazioni che raccontate in un libro storico o in un semplice documentario magari, annoierebbero ma che, inseriti all’interno di una storia avvolgente e avvincente, affascinano e incuriosiscono spronando, magari, alla ricerca. Un documento importante e utile, quindi, che gli enti pubblici della Valle farebbero bene a presentare nelle scuole e ad assicurarsene una copia per le loro biblioteche.

Andreuccetti, quando e perché ha deciso di raccontare la storia di Castello 1908?
Ho scritto “Castello 1908” per mettere in risalto la vita difficile all’inizio del secolo scorso in una piccola frazione del mio paese alla quale sono particolarmente legato. Lì sono nati mio padre ed i miei nonni, che sono poi i protagonisti principali del romanzo. A questi ho aggiunto figure immaginarie frutto delle mia fantasia.

Il libro si svolge nell’arco di un anno, in cui il lavoro degli uomini era scandito dalle stagioni. Ci può parlare – brevemente- di quali erano i lavori dall’inizio dell’anno sino alla fine che occupavano una famiglia come quella di Roberto?
A gennaio, preparazione del carbone; a febbraio avveniva la raccolta delle olive, la potatura alberi da frutta e la semina delle patate; marzo era il periodo della potatura delle viti e dei castagni ad aprile venivano potati gli olivi; a maggio si teneva la semina del granturco e della canapa; a giugno la raccolta della frutta e segatura del fieno; luglio era dedicato alla segatura del grano; agosto alla raccolta della canapa e della frutta; settembre era il tempo della vendemmia e raccolta della frutta; ottobre veniva seminato il grano; a novembre avveniva l’importante raccolta delle castagne;  a dicembre iniziavano i lavori alle carbonaie.

Si parla spesso, rivolti a quegli anni, di società patriarcale, come fa notare- nella sua prefazione- il professore Gabriele Matraia, invece la donna, in particolare la madre, aveva una funzione cardine…
Il padre era il capo indiscusso della famiglia, ma la moglie aveva comunque il proprio spazio nell’accudire la casa e nell’educazione dei figli. Nel mio racconto la madre di Roberto aveva una maggiore autonomia perché era di venti anni più giovane del marito il quale si vedeva costretto a demandare a lei compiti importanti della vita quotidiana.

Nel suo libro mette in luce anche una parte poco conosciuta dell’emigrazione: sfruttatori, profittatori, burocrazia da parte di italiani verso altri italiani…
I profittatori e li sfruttatori sono sempre esistiti. I tempi si ripetono; nell’emigrazione c’era un sottofondo di gente che si arricchiva, come sta capitando oggi.

Sta scrivendo un nuovo libro?
Il successo, almeno qui nel mio paese derivato dai commenti favorevoli e dalle richieste di dare un seguito a Castello 1908, mi hanno convinto a fare un riferimento in futuro alle peripezie di Roberto. Il mio nuovo lavoro, che è quasi terminato, sarà comunque un’altra storia.

Il suo libro parla di una storia di fatica, di dolore e di miseria ma anche di speranza quale il messaggio che voleva lasciare?
Il mio vuole essere un messaggio ai giovani. I ragazzi di oggi sono scontenti perché non trovano lavoro e se lo trovano è a rischio, ma non devono comunque perdersi di coraggio prendendo esempio dai loro nonni e bisnonni che hanno vissuto un periodo non certamente migliore e che si sono visti costretti a prendere decisioni difficili come quella di emigrare. In una parola, i giovani  non devono mai perdere la speranza, che è il fiore della vita e continuare a lottare tenacemente per riuscire a migliorare questa società che è più loro che della mia generazione.  I giovani di oggi, che hanno certamente mezzi maggiori rispetto a quelli di un tempo come la comunicazione di massa, devono ipotecare il futuro cercando di sfruttare le loro indubbie capacità e mostrando coraggio ed intraprendenza.

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