“La pazzia è veramente una malattia? Non è soltanto una delle tante misteriose e divine manifestazioni dell’uomo, un’altra realtà dove le emozioni sono più sincere e non meno vive?” queste le domande che si poneva Mario Tobino mentre scriveva il suo libro “Le libere donne di Magliano”. “I pazzi hanno le loro leggi come ogni altro essere umano e se qualcuno non li capisce non deve sentirsi superiore” spiegava poi, il medico-scrittore viareggino, che da anni viveva nell’immenso manicomio di Maggiano, sulle
colline di Lucca. La mattina e il pomeriggio visitava i malati insieme alle suore e a quelle contadine che erano divenute infermiere poi, alla sera, si ritirava nella sua stanza e coltivava la sua “segreta passione”: la scrittura.
Aveva già pubblicato diversi libri ma con “Le libere donne di Magliano” (che va in scena domenica sera al Teatro dei Differenti, in un bel adattamento curato da Maurizio Biagioni per Amici di Elsa Onlus) raggiunse la notorietà e l’apprezzamento di critica e pubblico. L’opera è il diario scritto per dimostrare che anche i malati di mente sono creature degne di stima, rispetto e amore. Non c’è una vero inizio del romanzo, come non c’è un’autentica fine.
I paragrafi sembrano avere una loro vita abbastanza indipendente che esprime bene la fuga d’idee e i deliri dei malati che ci appaiono come flash su sfondi in bianco e nero. Ritratti rapidi e intensi, personaggi come “la Sbisà” che “ha gli occhi molto belli, neri, sempre lucidi di malinconia e di sopportazione che, stranamente, brilla di profonda letizia”. Le “libere donne” sono scarmigliate, vestite con la divisa del manicomio, senza belletti, senza orpelli, eppure Tobino coglie in loro squarci di bellezza straordinaria, ne intuisce le storie, i pensieri, posa su di loro uno sguardo di fraternità, che non lo lascia immune dalla sofferenza.
“Questi matti sono ombre con le radici al di fuori della realtà, ma hanno la nostra immagine (anche se non precisa), mia e tua, o lettore”. Il fascino del mistero e l’amore per il malato visto più che con gli occhi del medico con quelli del poeta. “E questa malattia è un tal mistero che io ne vorrei fuggire, che ormai è molti anni che la guardo” rimarrà quasi prigioniero, consapevole e consenziente, del microcosmo di Maggiano: “la mia vita è qui. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte.”
E qui continuerà a tornare anche dopo la pensione, poco prima di morire. Tutto però era cambiato a causa della legge Basaglia, che abolì gli istituti manicomiali lasciando i matti al loro destino e a cui Tobino si era opposto. Sapeva che i matti lasciati al loro destini sarebbero stati vittime di loro stessi. Infatti furono centinaia i morti. Ne soffrì terribilmente, la cura non era quella; lui che aveva guardato, per tanti anni, in faccia la Follia lo sapeva bene. “Per i sani – diceva – è giunto il momento di fare i loro dovere verso i folli. E, per aiutarli, è semplicemente necessario aumentare il numero dei medici, degli infermieri specializzati, è necessario costruire piccoli ospedali per modo che ogni malato sia una persona e non un numero pressoché anonimo, è necessario e obbligatorio innanzitutto non dare soltanto il denaro, ma partecipare, sorvegliare, criticare, appassionarsi a ogni passaggio di questa meravigliosa impresa contro la pazzia, la più misteriosa dea che esista al mondo”.
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