I colori dell’autunno

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“Le piante ormai cominciavano a vivere trattenendo per sé quegli alimenti che avrebbero loro fatto superare l’inverno e si spogliavano delle foglie come di un vestito già troppo indossato.Per l’estatina dei Santi, per quella di San Martino, erano ancora tutte al loro posto; i pampini delle viti però avevano colori giallo o rosso intenso; le foglie dei castagni passavano dal verde sbiadito al ruggine; un paio di notti di brina poi tutte venivano giù a frotte.Spuntavano i rami nudi; il ciliegio si faceva ogni giorno più smilzo mentre ai suoi piedi si alzava un tappeto giallo sempre più largo.Le foglie di quasi tutte le piante rimanevano lì sul terreno a infradicire e a fare terriccio sostanzioso. Quelle del castagno
però, dopo che la tramontana le aveva mulinate per l’aria e accartocciate come cialde croccanti, si spazzavano con scope di stipa e si spingevano in una specie di capanna dal tetto di paglia; servivano poi per soffici letti alle bestie.
Chi sopravviveva, quasi simbolo di continuità, erano i sempre-verdi: qualche piccola pineta, cipressi solitari, ritagli di selve, dove sembrava si fossero scelti la dimora per affinità, l’orbaco, l’alloro, l’agrifoglio, la mortella, il bussolo i cui rami si allungavano in cerca di luce, lo zinepro che si allargava a cespuglio non avendo spazio per alzarsi e il frassino e l’acero.
Certi poderi che degradavano verso la Loppora, avevano il loro pezzetto di bosco ben delimitato a confine con le vigne e la selva. Quello spazio di verde intenso dove le foglie coriacee brillavano, sembrava un ornamento, un arricchimento del podere, qualcosa in più che altri non avevano. Era tutta legna forte, buona da ardere, robusta per i manici di vanghe, zappe, altri arnesi. Se nell’autunno qualche pianta che sembrava togliere troppo spazio ad altre veniva abbattuta, a primavera, quelle intorno crescendo rapide, ne occupavano il posto, facendone sparire le tracce. Questa era anche la stagione in cui il bosco risuonava di gorgheggi fitti come se tutti gli uccelli si fossero dati appuntamento lì; intrecciavano voli, costruivano il nido sui rami più alti.
Giù alla base il sole non penetrava, il terreno era reso soffice da tanti strati di foglie e i passi non vi facevano rumore. Durante l’estate i ragazzi si inoltravano nel bosco; la sua ombra e la sua vegetazione esercitavano su loro una certa attrattiva. Si aprivano il passo tra un intrigo di lievi asparagelli, di pungitopi, di basse siepi che non arrivavano a maturare i frutti e di sottili liane tessute dalla vitalba; coglievano i ciclamini. Un ghiro sotto i loro occhi fuggiva da un mucchietto di noci e nocelle già accuratamente svuotate.
Pensavano che la volpe e il tasso avessero lì la loro tana.
La spennata di una gallina che non era rientrata al pollaio, si stendeva fino alle prossimità del bosco, ma poi si perdeva in un labirinto di andirivieni. Il tasso ogni notte visitava il campo del granoturco, ne abbatteva i costi, ne mangiava le pannocchie; ma neppure di questo era possibile individuare il nascondiglio. Erano animali furbi.
Era più facile sotto un cumuletto di foglie, al margine del bosco, scoprire in autunno avanzato la dimora di un riccio che non si moveva neppure alle sollecitazioni dei ragazzi, tanto era profondo il suo sonno.
Finiva l’estate; tordi, frusoni ed altri uccelli, nel loro viaggio di partenza si abbassavano sul bosco: il suo verde li attirava. Per loro l’albatro aveva maturato le sue palline rosse e il sanguino le sue bacche brune e lì dintorno c’era qualche grispollo rimasto sulle viti. Ripartivano. Di tutti i suoi ospiti alati, al bosco rimaneva il pettirosso che come lui sfidava l’inverno; saltellando ai margini salutava col suo trilletto il sole, la neve, il freddo e frugava le siepi dove nulla sfuggiva ai suoi occhietti vispi e al suo beccuccio sottile.
Nella cucina, la sera, i ragazzi si divertivano allo scoppiettio fitto fitto di un rametto di zinepro o di orbaco gettati nel fuoco; e la legna ardeva anche senza essere stata stagionata, consumandosi in una fiamma limpida e lenta che sprigionava odore di resina e di olii balsamici.”

“Le stagioni del bosco”
Tratto da “Racconti Barghigiani” di Maria Francioni
edizioni “Il Giornale di Barga”, 1985

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