Era l’ora, scandita dal suono delle campane del Duomo, entro la quale le tre porte del borgo dovevano essere chiuse: alle 21.00 d’inverno, alle 22.00 d’estate. Oggi di quella tradizione rimane il suono delle campane del Duomo che suonano l’or di notte con gli stessi orari di allora.Dopo i rintocchi, la Porta di Borgo, la Porta Latria e quella Reale venivano serrate e rimaneva a far loro la guardia, un custode fino alla mattina.Questa usanza risaliva al Mille, quando Barga eresse le mura attorno al proprio nucleo abitato, e, seppur con alcune interruzioni, alla fine del 1700, la chiusura delle porte era ancora in uso, fortemente voluta dagli abitanti possidenti del centro storico che così si sentivano maggiormente protetti.Ma, dato l’allargarsi della “periferia”, gli abitanti di fuori porta soprattutto, cominciarono a pretendere che le porte della città rimanessero sempre aperte, anche perché, cercare di entrare –o di uscire- fuori orario significava dover pagare il disturbo alla guardia di turno.Molte volte ci siamo chiesti come e quando questa pratica cessò, e, quasi per caso abbiamo trovato risposta in uno scritto del fondatore di questo giornale, Bruno Sereni, che in un capitolo della sua “Storia di Barga”, dal titolo Le Porte e i Francesi, narra le vicende che portarono alla conquista definitiva dell’apertura permanente delle porte del nostro borgo.
L’arrivo dei Francesi a Castelnuovo aveva suscitato nei giovani di Barga eccitazione ed entusiasmo per le novità recate, la più eccitante delle quali fu la erezione, nella piazza antistante la Rocca Ariostesca, dell’albero della Libertà, che i nemici e gli avversari, con ironico disprezzo, chiamavano “l’albero della cuccagna”. Il Vicario regio, mai e poi mai avrebbe “carteggiato con il sedicente comandante delle armi di detto luogo” se non fosse stato forzato a farlo per non perdere del tutto la faccia. Come i francesi erano giunti a Castelnuovo le teste calde di Barga, seguite dalla gente di fuori porta, dagli artigiani, vetturali, fornai, ritornarono a chiedere che le porte Reale, Latria e di Borgo, che dall’ora di notte, ora 22 d’estate e ore 21 d’inverno, venivano chiuse, fossero aperte. Questo desiderio non era affatto campato in aria, ma ubbidiva invece ad una necessità da sempre respinta dai Consoli e dai Vicari che via via si erano succeduti. Adesso la richiesta dell’apertura delle porte veniva fatta a nome dei richiedenti da un giovane studente universitario, Domenico Tallinucci, figlio di antica famiglia consolare e filandieri. Per le sue ostentate idee liberali e per l’aperta simpatia verso i francesi, era sorvegliato dalle spie di Vicario che lo avevano schedato elemento pericoloso. Alle ragioni esposte con buon garbo dal Tallinucci che gli elencava un rosario di necessità per cui le porte di notte avrebbero dovuto rimanere aperte, il Vicario lo stava ascoltando rimanendo in piedi con un sussiegoso sorriso sulle labbra. Quando il giovarne Tallinucci ebbe terminata la perorazione, il Vicario, senza proferir parola, con un cenno della marno gli indicò di andarsene. Al Tallinucci che di temperamento era impetuoso, venne l’istinto di reagire. In tempo si trattenne. Nell’anticamera vi erano due birri che immediatamente lo avrebbero arrestato. Fuori della Loggia del palazzo vicariale, sull’Arringo, fiduciosi lo attendevano gli amici di Porta di Borgo. Come lo videro scuro in volto, si astennero dal chiedergli come era andata. Domenico Tallinucci non si fece vedere per alcuni giorni; nessuno sapeva dove fosse andato; neppure le spie del Vicario lo sapevano. Assente lui, l’agitazione si afflosciò. La gente del Giardino, di Gragno, di Bugliano, se di notte aveva bisogno di andare nel Castello per il medico, la levatrice, lo speziale, e i vetturali, i fornai i macchiaioli che avevano necessita di uscire prima dell’alba, solo compensando il guardiano potevano farsi aprire. La chiusura delle porte risaliva ai primi anni attorno al Mille, quando il pago di Barga divenne castello murato. Alla fine del 1700 quella secolare tradizione era divenuta anacronistica, voluta dalle famiglie possidenti per maggior sicurezza e tranquillità notturna. L’esigenza di tenerle aperte anche di notte era invece cresciuta assieme all’aumentato numero degli abitanti residenti fuori delle mura, specie di quelli del subborgo del Giardino che gravitavano attorno alla chiesa di San Rocco, di quelli dei Frati, Gragno e di Porta Latria, Bugliano, Serra. Non era trascorsa una settimana dalla visita del giovane Tallinucci al Vicario quando una mattina a Porta di Borgo, si presentò un uomo a cavalcioni di un mulo. Portava sul petto una coccarda tricolore che nei presenti destò una certa impressione. Egli era il primo cisalpino che abbaccava il suolo di Barga. Disse al guardiano parlando tosco-garfagnino che veniva da parte del Comandante francese, Capitano Marlin, con un personale messaggio per il signor Vicario di Barga. Lo fecero entrare, trattenendolo al posto di guardia in attesa del ritorno di un birro salito sull’Arringo ad avvertire il Vicario. Questi, dopo una lunga e meditata riflessione, maturata camminando in su e in giù per la stanza-studio, alla fine diede ordine che accompagnassero il messo alla sua presenza. Ritiratosi il cisalpino, il Vicario con mani che gli tremavano, prese a leggere il messaggio. Il Comandante francese con tono garbato e forma ossequiosa, amichevolmente invitava il Vicario di assecondare i desideri del popolo di Barga, di tenere le porte aperte durante la notte. Insistere ancora nel tenerle chiuse sarebbe una mancanza di riguardo verso di lui Comandante delle Coorte di Modena in Castelnuovo. Non ottemperando alla ragionevole richiesta, egli declinava ogni responsabilità, non esistendo fra il Vicario toscano di Barga e la provincia cisalpina della Garfagnana un trattato di buon vicinato. “Il Signor Vicario ha due giorni di tempo per rispondere al messaggio”. Partito il messo da Barga nel pomeriggio di quello stesso giorno, Domenico Tallinucci comparve a Porta di Borgo. Gli amici lo attorniarono, facendogli festa; intanto gli chiedevano dove si fosse intanato tutto quel tempo.
– Ve lo dirò, ve lo dirò – badava a dire – adesso è ancora presto. Questa sera dopo l’Ave Maria, facciamo parlamento nella Piazza del Mercato. Avvertite la gente di San Rocco, della Fornacetta e dei Frati di venire in piazza. Le porte o le apriamo adesso o mai più.
La notizia del ritorno di Domenico Tallinucci non era ancora arrivata a Porta Latria che un soffione l’aveva fatta rimbalzare al Vicario sull’Arringo. Il Vicario tuttora depresso per il messaggio della mattina, nell’udire che il giovane Tallinucci improvvisamente era comparso a Barga, intuì immediatamente che era stato lui a sollecitare il capitano francese ad intromettersi in faccende che non lo riguardavano affatto. Il suo primo impulso fu quello di farlo subito arrestare insieme al gruppo dei suoi facinorosi amici. Non giunse però a tradurre il pensiero in atto, che fu preso da subitaneo sgomento, arrestare il Tallinucci, significava aprire le ostilità con i francesi di Castelnuovo. Era forse autorizzato a farlo? E facendolo, il Governo lo avrebbe approvato? Col fiato appesantito dalle apprensioni rilesse il messaggio ancora una volta; in quell’istante bussarono all’uscio. Era un servitore che annunziava la visita del Signor Proposto, venuto con il Dottor Carlini, il Cavalier Gherardi, il signor Falconi. Li fece subito entrare. Cessati i convenevoli, messisi a sedere, chi sul canapè, chi su delle savonarole, il vicario disse:
-Immagino il motivo di questa loro visita e ringrazio d’esser venuti.
-Questa sera ci sarà parlamento in Piazza del Mercato – disse il Proposto. Non dev’essere assolutamente permesso. Gli altri annuirono con gravi cenni del capo ed il signor Gherardi aggiunse: -Giusto-.
Il Vicario prese dalla scrivania la lettera del comandante francese e pregò il signor Proposto Menchi di leggerla ad alta voce. Alla fine dell’affannosa lettura, subentrò un imbarazzante silenzio che venne rotto da un’osservazione del Vicario: -Il Tallinucci è un protetto dei francesi. Arrestarlo… Il dottor Carlini non gli fece terminare la frase: -No, no, sarebbe un’imprudenza. Qui ci vuole molta diplomazia.
-Che tempi! Che tempi!- sospirò il Proposto, annusando una presa di tabacco e porgendo agli altri la bella tabacchiera d’avorio.
-Certo- interloquì il signor Falconi -la coscrizione forzata ha rinfocolato l’odio della plebe verso i Signori. Si sono commesse molte parzialità. La faccenda dell’apertura delle porte è una conseguenza della coscrizione.
-No- Gli rispose il Cavalier Gherardi l’’apertura delle porte è una questione che si trascina da anni.
-Prego, signori, non divaghiamo; -interruppe il Vicario- come hanno udito, ho due giorni di tempo per rispondere a quel messaggio che a me suona come un autentico ultimatum.
-Lo è,- confermò il Proposto Menchi -un ignobile ricatto. Quella è gente che ha perduto il timor di Dio.
Con mal repressa stizza il Vicario rispose: -Qui non si tratta di far delle imprecazioni ma di dare una risposta all’ultimatum. Perdoni, Monsignore, la rudezza del mio rispondere. Sono molto preoccupato per quel che potrà succedere stasera.
-Proponga al comandante francese una proroga di altri due giorni, in attesa di ricevere istruzioni da Firenze.
-Ci avevo pensato- rispose il Vicario -ma questa sera che cosa succederà?
-Nulla succede- disse il Proposto Menchi -sarà la solita chiassata di quelli di Porta di Borgo. Ad una cert’ora andranno a dormire, debbono alzarsi presto la mattina.
-Speriamo che sia come lei dice- sospirò il Vicario.
Non fu proprio come aveva pronosticato il Proposto e sperato il Vicario. La chiassata c’era stata, rumorosa e prolungata più del previsto. In piedi su di un tavolo portatogli da gente di Via della Fontana, il Tallinucci concluse un breve ma eccitante discorso, lanciando la sfida ai signori di Barga:
-Le porte, o le apriamo adesso o mai più-
I presenti quasi tutti contadini ed artigiani, ripeterono in coro la sfida; -O adesso o mai più!
La ragazzaglia, andata al parlamento con raganelle, coperchi di pentole di latta, utensili in disuso, iniziò un chiasso assordante. A quello strepito, porte e finestre si aprirono in Piazza Santa Maria Novella, in Piazza delle Erbe e in via di Mezzo.
-Che succede?- chiedeva la gente allarmata e spaventata.
-Le porte, la rivoluzione, Viva i francesi- rispondevano voci eccitate nell’incipiente buio della sera. Immediatamente le serrande venivano chiuse o sprangate. Intanto in Piazza del Mercato continuava a giungere altra gente, attirata dalla curiosità e dal chiasso.
II Tallinucci che aveva in mente un piano preparato in precedenza, trascinatosi dietro uno scelto numero di fidati amici, si diresse all’osteria del Togno, che si trovava in via di Mezzo, sotto alla Volta del Pepparello. Appena entrato dentro con il seguito disse all’oste: Togno, facci lume e portaci da bere.
-Adesso o mai più- gli rispose l’oste, battendogli una festosa pacca sulle spalle. Si misero a sedere su due panche, gli uni di fronte agli altri, lungo una vecchia tavola di colore scuro, sulla quale si scorgevano vecchie impronte di bicchieri e di altri recipienti. Togno ritornò coi lumi che appese ai fili di ferro attaccati ai travicelli del soffitto.
– Togno,- disse il Tallinucci -col vino portaci pane, salame e cacio in abbondanza.- Scorti fra i presenti due giovani che da qualche istante andava cercando con lo sguardo, gli fece cenno di avvicinarsi.
– Nanni, Tranquillo, dopo che avete mangiato, andate in piazza e avvertite i ragazzi di andare a far chiasso a Porta Reale e a Porta Latria e di non muoversi di lì, fino a quando non verremo noi a far la veglia.
-Che veglia- domandò qualcuno.
-La veglia alle porte perché rimangano per sempre aperte- rispose il Tallinucci.
Per un attimo gli amici rimasero quasi folgorati dalla idea della veglia alla quale non avevano affatto pensato. Ripresisi all’istante, esplosero in entusiasmo e fragorose risate.
-Che succede?- chiese l’oste sorpreso.
-Questa notte facciamo veglia alle porte.
-Alle porte? O quella?
-Si, perché rimangano per sempre aperte.
-Ci sto anch’io- esclamò l’oste, ridendo.
Ritornò con due boccali dì vino: -Questo lo offro io, alla salute dei francesi.
-Viva la Francia gridarono gli altri in coro.
Come dalla torre campanaria, quella sera si diffusero nell’aria i lenti rintocchi dell’ora di notte, il Tallinucci si alzò.
-Andiamo- disse ai suoi. Strada facendo si unirono gli altri. L’idea della veglia intanto si era rapidamente diffusa tra la gente della Fornacetta, Bugliano e fuori Porta Reale.
A Porta Latria c’erano uomini di tutte le età, donne e ragazzi che facevano chiaro con torce resinose, in mezzo a tutta quella gente agitata, si muoveva il guardiano quanto mai avvilito per quell’insolito disordine, badando a dire; -Fate a modo ragazzi, badate a quel che fate.
E i ragazzi, ridendogli in faccia, gli rispondevano: Adesso o mai più.
-L’ora di notte è già suonata da un pezzo ed io devo chiudere la porta- andava borbottando il guardiano.
-Non ti ci azzardare- lo minacciò un giovane beccaio. Scrollando la testa il guardiano, adesso, cambiando antifona andava dicendo: -Qui va a finir male.
Verso la mezzanotte il Tallinucci, trovandosi a Porta Reale, diede ordine che si facesse silenzio e i ragazzi fossero condotti a casa. Di primo acchito non fu facile smobilitare la ragazzaglia esaltata dall’idea del bivacco notturno.
-A casa e a letto -quasi gridò il Tallinucci. Fate silenzio. I ragazzi si chetarono sull’istante e alle donne non sembrò vero di riportarseli a casa. Dagli anziani in silenzio le porte rimasero presidiate fino ai primi chiarori dell’ alba.
Il Vicario, il Proposto, i Signori di Via di Mezzo, di Via del Pretorio, di Via delle Mura, impauriti dal chiasso, si appisolarono solo a giorno fatto. La chiassata notturna aveva dato ad essi l’umiliante sensazione di essere improvvisamente caduti all’ultimo gradino della scala sociale.
Il Vicario, un fiorentino cinquantenne di antica famiglia guelfa, uomo assennato, prudente, coraggioso, rimasto sveglio durante la notte, via via veniva dai suoi segreti informatori ragguagliato su cosa stava succedendo alle porte. Come gli dissero che il Tallinucci aveva ordinato il silenzio, intimando ai ragazzi di andare a dormire, si sentì sollevato. Il pericolo era cessato. Le ore che seguirono gli schiarirono le idee. Egli avrebbe trattato direttamente con il comandante di Castelnuovo e scavalcando il Tallinucci avrebbe salvato la faccia.
L’accordo fra il Vicario e il capitano Marlin, raggiunto dopo uno scambio di lettere, demoralizzò il Tallinucci ed i suoi amici che si consideravano traditi dai francesi. Come il Tallinucci apprese del paterecchio avvenuto tra i due a sua insaputa, a dorso di mulo, passando da Albiano, Treppignana e Ceserana, giunse a Castelnuovo, facendosi subito ricevere dal comandante francese.
-I nostri- disse -sono delusi ed amareggiati, ed io con loro.
-Lo so- rispose il capitano Marlin, mettendogli amichevolmente una mano sulla spalla. Abbiate pazienza. Non siamo ancora tanto forti da poter fare ciò che vogliamo. Siamo appena all’inizio della nostra missione.
-Io avevo eseguito il piano che assieme avevamo preparato- disse il Tallinucci ancora risentito.
-Ed abbiamo ottenuto una bella vittoria.
-Si, quella di aver posticipato la chiusura delle porte di tre ore. E lei la chiama una bella vittoria?
-Certo; abbiamo aperto una strada che prima non c’era, creando un contatto, dal quale sta ora a noi procurarne degli altri. Nell’ accordo è contemplato che nessuno dei promotori e dei partecipanti alla dimostrazione notturna sarà inquisito o molestato.
Fra il Governo Toscano e la Repubblica Cisalpina sarà presto firmato un patto di buon vicinato. Sapete, cittadino Tallinucci, che cosa vuol dire?
-Lo posso immaginare- rispose il Barghigiano alquanto ammansito.
-Ritornate a Barga e dite agli amici di avere fiducia in noi. Presto pianteremo anche in quella terra l’albero della Libertà. Statene certo. Arrivederci, cittadino Tallinucci.
Il Capitano Canetti, comandante della piazzaforte di Castelnuovo e di tutta la Garfagnana il 21 Maggio 1797, anno V della Repubblica francese e della Libertà Lombarda, scrive al Vicario del governo toscano a Barga una lunga lettera di protesta. Egli accusa i barghigiani Vincenzo Nicoli e Cristofano Verzani ed il Rettore di San Pietro in Campo Gaetano Menghesi, di avere tentato di sobillare cittadini della Repubblica Cisalpina, propagandando notizie false e tendenziose.
LIBERTA’ EGUAGLIANZA (Lettera del Capitano Canetti dell’esercito franco – cisalpino a Castelnuovo al Vicario del governo toscano a Barga) (Archivio comunale di Barga)
“Vi avviso che fra codesti abitanti si sono fatti lecito più e più volte di spacciare o per imprudenza o per malicia, delle assurde dicerie contro la Libertà e valore delle Armate Repubblicane e loro generali; alla presenza di alcuni cittadini di questa provincia, i quali tornati poscia alle loro case, fidando nella verità di tali asserzioni, hanno sparso il timore e la diffidenza con pericolo di nuovo allarme. Ho creduto, signor Vicario di Barga, di dover fin qui disprezzare la condotta antipatica di codesti paesani, sperando che all’annunzio conclusa pace e dell’ indipendenza della Lombardia, si sarebbe represso l’effrenato spirito di partito ed illuminata la semplicità dei creduli, ma dopo nuovi fatti sono finalmente costretto a darvene parte per un prudenziale temperamento.
Tralasciandone molti che potrei citargli, gli dico soltanto che recentemente un certo Vincenzo Nicoli, Cristofano Verzani ed altri di codesto luogo, non solo millantavano la totale disfatta delle armate Franco-Lombarde a Giovanni Bertoncini di Castelnuovo, ma lo eccitavano ancora a far rinvenire la sollevazione con l’atterrare l’insegna Repubblicana. L’istesso è accaduto per parte di un tale Rettore di San Pietro in Campo al cittadino Matteotti passando sotto silenzio un’infinità d’altri che non possono por piede nel vostro paese senza essere stimolati alla disobbedienza stile leggi ed alla Repubblica.”
Dopo le lagnanze le minacce
“Tale contegno è indubbiamente opposto ai principi che professa il suo Governo, che hanno principalmente la mira di far sussistere la quiete e la buona armonia fra i due popoli. La invito pertanto a prendere le più pronte ed efficaci e non equivoche misure per prevenire qualunque altro disordine e mi prometto che il di Lei zelo mi dispenserà del far rimostranze di questa pericolosa condotta dei suoi sottoposti al Generale in Capo e al mio Governo, come il dovere mi imporrebbe se le di Lei disposizioni rimanessero senza effetto.
La prego, Signor Vicario, di accettare le assicurazioni della mia amicizia”.
Il Vicario per nulla turbato dì quanto scriveva il Capitano Canetti, anzi compiaciuto, si affrettava a passare la patata bollente a quelli di Firenze, i quali tre giorni dopo, 24 maggio 1797, allarmati, così rispondevano: “La risoluzione dell’affare da Lei partecipato per Espresso con la sua del 22 dell’andante, devo incaricarla d’intimar prontamente gli imputati Vincenzo Nicoli, Cristofano Verzani e il Rettore di San Pietro in Campo, nominati nella lettera del cap. Canetti, che qui acclusa le ritorno, a trasferirsi in Firenze nel più breve termine, di procurarsi intanto le ulteriori notizie che si possono avere sopra questo oggetto e di partecipare”•
“Devo altresì incaricarla di far sapere al più presto possibile al suddetto Capitano Canetti, e ciò di proprio moto, vale a dire senza svelare l’impulso del Governo, che S.A.R. Informata della di lui doglianza, ha già ordinata la verificazione della medesima ed ha frattanto fatto passare a Firenze gli imputati”
Nella successiva lettera al Vicario in data 28 maggio, si dispensa i tre imputati di recarsi a Firenze a discolparsi
“Si dispensa detti Vincenzo Nicoli, Cristofano Verzani e il Rettore Gaetano Menghesi di andare a Firenze (Anche per le premure del Vice Comandante di Castelnuovo)”
Vista la buona disposizione e volontà del Governo Toscano nel voler punire i colpevoli, il rappresentante di quello Cisalpino si dichiara soddisfatto delle scuse ricevute.
Nuovamente allarmato,il Ministro, in data 17 giugno 1797, comunicava al Vicario di controllare se siano vere certe notizie giunte a Firenze dai propri agenti (spie) in Garfagnana secondo i rapporti dei quali era in preparazione un assalto alla terra di Barga e di Lucca.
“Si ha straducial notizia che una persona di Castelnuovo di Garfagnana abbia asserito che in cotesta terra vi sono 500 coccarde e che dentro il corrente giugno sarà piantato l’albero della Libertà, tanto costi che a Lucca. Quantunque non si abbiano dati da portar fede a questa notizia, pure la partecipo a S.V. perché senza palesarla a veruno, mi dica, se colla vigilanza da Lei usata nelle attuali circostanze, abbia acquistato alcun riscontro da cui possa arguire la sussistenza o insussistenza delle medesime”.
In precedenza in data 22 maggio 1797, il Ministro da Firenze invia al Vicario a Barga un rapporto sul canonico Tito Costante Lucchini il quale si sarebbe dichiarato giacobino; e se avessero tentato dì arrestarlo, mettendogli le mani addosso, gli voleva scaricare un colpo di pistola per rilasciare nel mondo una dì lui memoria. Detto Canonico avrebbe lodato la giustizia francese e biasimato quella toscana. Insieme a Iacopo Bertacchi avrebbero tentato di attirare nel partito dei giacobini il furiere Giuliano Piacentini e l’abate Gioacchino Baldi. In breve spazio di tempo il Governo Granducale sì era abbassato al punto di raccomandare ai propri vicari, i cui territori confinavano con quelli della Repubblica Cisalpina, di evitare qualsiasi pretesto che potesse creare incidenti. Se i sudditi avevano bisogno di transitare nei territori della Repubblica portassero bene in vista sul petto la coccarda con i colori della Toscana: Bianca e Rossa, che si sarebbero tolta non appena rientrati nel granducato, e carteggiando con i francesi, bisognava chiamarli “Cittadini”. Costatato che parecchi sudditi di Barga hanno preso servizio militare presso potenze straniere (Francia) senza licenza, che vengano esiliati.
Spaventato dell’ordine dato al Vicario di esiliare tutti coloro che senza licenza si erano arruolati nell’esercito francese, in data 20 febbraio 1798, lo stesso Ministro scriveva “Sua Altezza Reale (S.A.R.) a cui sta a cuore di prevenire tutto ciò che potesse turbare la tranquillità pubblica, avendo osservato che talvolta i predicatori non sono cauti quanto le circostanze richiedono, mi ha incaricato di ordinare, conforme eseguisco con la presente i giusdicenti di avvertire subitamente quelli che fossero al ministero della predicazione per l’entrata Quaresima nella rispettiva Giurisdizione ad evitate scrupolosamente sia nelle prediche che nei loro privati discorsi qualunque espressione che si riferisse o potesse facilmente riferirsi alle vicende politiche alle quali va attualmente soggetta l’Europa e specialmente il governo di Roma.”
In parole correnti di immediata comprensione, il Ministro avvertiva i predicatori quaresimali di astenersi dal fare propaganda contro i francesi regicidi, spietati persecutori della romana chiesa, che tenevano il Pontefice in stato di cattività.
Si guardassero bene dal farlo, perché facendolo sarebbero immediatamente arrestati ed esiliati.
Da Milano, il 21 maggio 1796, Napoleone annunciò la liberazione del popolo romano, aggregando alla Repubblica Cisalpina le città di Bologna, Ferrara, Ravenna.
Il Papa Pio VI, al secolo Giovannangelo Braschi di Cesena, sollecitò un armistizio che gli venne concesso il 23 giugno. A trattare le condizioni di pace a Parigi, egli inviò il barghigiano Conte Cristofano Pieracchi, che negli anni precedenti era stato vice Nunzio Apostolico alla Corte del re Luigi XVI. I francesi scoprirono che nei bauli, il Pieracchi contrabbandava un breve papale, riprodotto in centinaia di copie, indirizzato al clero francese, con il quale si intimava di non riconoscere nessun’altra autorità che quella della chiesa, comminando gravi sanzioni a coloro che non si fossero adeguati. Le trattative vennero immediatamente interrotte e per riprenderle i francesi misero condizioni esorbitanti, che il Pontefice rifiutò per accettarle poi pochi mesi dopo, 19 febbraio 1797.
La pace ebbe poca durata e con l’ occupazione di Roma, avvenuta il 15 febbraio 1798, Pio VI venne deposto ed esiliato prima a Siena, a Firenze, poi a Parma e a Torino; successivamente a Briançon e a Grenoble, venendo a mancare in prigionia a Valenza il 29 agosto del 1799, all’età di 82 anni.
Il Governo Toscano aveva più di un serio motivo di essere seriamente allarmato per quanto i quaresimalisti, eccellenti predicatori, avrebbero potuto dire.
Firenze in data 15 maggio 1797 inviava al Vicario a Barga la confessione fatta da un agente del Governo toscano da un certo Andrea Brunetti di Gallicano, il quale assicurava che gente di Barga si sarebbe recata a Castelnuovo dal capitano Marlin a chiedere soldati per invadere la terra toscana ed innalzare a Barga l’albero della Libertà. “Controllasse bene e subito se l’informazione era esatta”.
La soffiata di Brunetti ha tutta la somiglianza d’essersela inventata, visto l’interesse che le sue vaghe delusioni suscitavano in chi lo stava attentamente ascoltante e per farlo uscir dal vago ed entrare nel concreto, lo invitava a bere e a mangiare. Facendo il cognome di Tallinucci, famiglia notoriamente filo francese egli non precisava quale dei Tallinucci era andato dal Capitano Marlin. Il padre? O chi, dei figli?
Racconta Brunetti di Gallicano :
-Io mi imbattei in una comitiva di vetturali Cisalpini e Barghigiani e sentii fare il discorso che un tale Tallinucci di Barga del quale non espressero il nome, era stato a Castelnuovo e si era presentato al comandante francese Marlin chiedendogli truppa per erigere a Barga l’albero della Libertà”.
La confessione che tanto allarmò Firenze diventava inverosimile quando il Brunetti, continuando il fantasioso racconto, afferma che il capitano Marlin avrebbe dissuaso il Tallinucci dai suoi propositi perché gli risultava che i barghigiani non avevano nessun desiderio di innalzare l’albero della Libertà. “Il comandante Marlin sapeva che la volontà dei Barghigiani non era quella di erigere in Barga l’albero della Libertà”.
Marlin sapeva invece che i Barghigiani con Domenico Tallinucci in testa, erano sempre pronti a mettere il paese a soqquadro se si fosse trattato di tenere aperte le porte durante la notte. Quella era una libertà che i bisogni e le necessità da tempo avevano fatto capire ed apprezzare al popolo di Barga.
Pochi nelle terre invase dai francesi avevano coscienza che cosa nella realtà pratica significassero le magiche parole “Libertà” “Eguaglianza”. Il popolo sbandava qua e là a seconda delle spinte che riceveva. Se non era di aiuto ai francesi, meno lo era ai propri signori i quali nelle circostanze in cui si erano venuti a trovare, avrebbero voluto impiegarlo in difesa dei propri interessi e privilegi. Il popolo assisteva invece passivo e indifferente agli avvenimenti che gli si affastellavano attorno, senza comprenderli, intuendo più o meno vagamente che comunque sarebbero andate le cose, le condizioni di vita non sarebbero mutate.
A Barga capoluogo dove gli artigiani erano numerosi e i professionisti e commercianti da tempo premevano per avvicinarsi alla classe dei possidenti, le idee venute coi francesi andavano a genio e furono subito assimilate.
Le autorità cisalpine, carteggiando, adoperavano carta da lettere dove in alto ai lati erano le parole: “Libertà” “Eguaglianza”. Questi termini se lasciavano indifferente il popolo, quando apparivano alla vista dei professionisti, dei commercianti o artigiani, producevano commozione ed entusiasmo.
Se il racconto confusionario del Brunetti attribuiva a Domenico Tallinucci proponimenti notori a tutti, non era per quella via che egli avrebbe organizzato una seconda sommossa a Barga. Un giorno a Castelnuovo, trovandosi in amichevole colloquio con il capitano Marlin, avendogli questi chiesto quale fosse il morale degli amici di Barga, il Tallinucci rispose:
-Ci stiamo preparando per il giorno che entrerete in Toscana. Dopo il fallimento della prima sommossa, gli amici, avanti di muoversi nuovamente, vogliono essere certi della riuscita.
-Non è ancora il momento- rispose il capitano. -L’abbiamo capito.
-Forse alla fine dell’anno (1798) o ai primi del prossimo. Il generale Bonaparte sta preparando una grande armata per invadere l’Egitto.
-Perché l’Egitto e non il resto dell’Italia? -Perché 1’Italia è già sotto l’influenza francese, mentre i potenziali nemici della Francia repubblicana sono l’Inghilterra e la Russia.
Dal carteggio con il Vicario di Barga, il che fa supporre come lo stesso avvenisse anche con gli altri Vicari, il Governo Toscano per tutto il 1798 accelerò la coscrizione forzata in vista di formare nuovi reggimenti sebbene di dubbio affidamento. I metodi di reclutamento rispetto ai precedenti erano stati semplificati. Adesso bastava che al giusdicente del luogo fosse nota la condotta libertina di un giovane di sana costituzione senza un lavoro fisso e di famiglia in grame condizioni per essere arruolato di forza.
Da quando a Castelnuovo c’erano i francesi, i giovani residenti nel territorio barghigiano che si facessero acchiappare dai birri e condurre alla caserma di Livorno erano divenuti rari. I pochi erano elementi inservibili e presto venivano dimessi.
Quelli invece che sarebbero stati abili si arruolavano volontari nell1esercito cisalpino dove erano bene accolti e trattati, con molte possibilità di avanzare di grado.
In data 6 febbraio 1798, Firenze scriveva al Vicario: “Parecchi sudditi hanno prese servizio militare presso potenze straniere, senza l’espressa licenza; che vengano esiliati”.
Altri facendo buoni guadagni, praticavano il commercio clandestino del bestiame, facendolo passare con false documentazioni dal territorio toscano in quello cisalpino dove veniva pagato meglio. Scrive il Ministro al Vicario:
“Firenze 28 settembre 1797
E’ stato osservato che le licenze che vengono accordate dai Giusdicenti ai conduttori di bestiame, questi se ne servano fraudolentemente per estradare bestiame dal Granducato. Si chiede di vigilare»
In un altro ordine è detto :
“Sua Altezza Reale informato delle copiose estrazioni di bestiame, specialmente buoi, che si fanno tutti i giorni in contravvenzione della Toscana, vuole che tutti i ministri ed esecutori dei Tribunali e Dogane, si prestino con ogni premura per impedire al possibile tali estrazioni 2
Verso la fine del 1798 al momento in cui la Toscana stava per essere invasa dai francesi, 1’ autorità, il prestigio la forza del suo governo era scesa nella stessa misura con cui quella dei francesi, che premevano ai confini, era aumentata. Vicari e Giusdicenti esistevano ormai solo di nome, impotenti a farsi rispettare.
Il pretesto ad occupare la Toscana e con essa la Repubblica oligarchica lucchese, i francesi l’ebbero con lo sbarco delle truppe napoletane a Livorno avvenuto il 28 novembre 1798.
Il 1° gennaio 1799 il generale Seurier con un proclama annunciava la necessità di inoltrarsi nel territorio toscano e di Lucca per scacciare i Napoletani da Livorno.
Fu un’invasione pacifica, la quale, essendo attesa da tempo, non produsse nessuna sorpresa. Il Capitano Marlin, giungendo da Castelnuovo a Barga con una compagnia di fanti ed un drappello di cavalleggeri, trovò ad attenderlo a Porta Reale, il Vicario con i notabili.
Entrambi si conoscevano per aver avuto modo in tre anni di frequentarsi e stimarsi, sia carteggiando sia durante incontri per appianare questioni di reciproco interesse. Assieme al seguito percorsero a piedi Via del Pretorio fino all’Arringo. La gente alle porte e alle finestre delle case meravigliata li salutava in silenzio. Fuori dalla Loggia del palazzo vicariale, attendeva il gonfalone con i consoli a capo scoperto, il Proposto con alcuni sacerdoti. Il capitano lo salutò mettendosi sull1 attenti, facendo poi un inchino che sorprese di meraviglia i presenti e commosse il Proposto che ricambiò il saluto con un ampio sorriso ed un largo gesto della mano. In sostanza il popolo salito fin lassù dalla scalaccia, assisteva meravigliato e confuso a quei convenevoli non riuscendo a capire come tutto ad un tratto i francesi da nemici fossero diventati amici.
Appena il comandante francese seguito dal Vicario entrò nel palazzetto Pretorio, venne fuori una guardia con una bandiera tricolore che issò sulla prima antenna e nella seconda alzò la bandiera granducale bianco-rosa. Compiuto l’atto che richiese più tempo del normale, in quanto all’inserviente imbarazzato tremavano le mani non trovando i legacci, come ebbe finito, fece cenno alle autorità che stavano sotto la Loggia di entrare nella sala d’ingresso sulla cui parete di fronte erano appesi i ritratti del Granduca Ferdinando III e della sua Augusta consorte.
Il capitano Marlin con un fare nulla affatto altezzoso, anzi con tono pacato lesse i nomi dei membri della nuova giunta provvisoria, in attesa dell’investitura ufficiale del nuovo Governo che si stava formando a Firenze. Venne nominato con l’incarico di “maire” corrispondente alla carica di Gonfaloniere, il cittadino Giuseppe Bertacchi, assente in quel momento, trovandosi a Modena presso il Governo della Repubblica Cisalpina. Vennero nominati assessori, ossia Consoli, il fabbro ferraio Antonio Biagiotti con officina in via della Fontana, Pietro Marchetti con forno in proprio in Vicolo del Forno. Avanti di proseguire con la lettura degli altri nomi, il Capitano fece una brevissima pausa, dando cosi tempo ai convenuti di ricomporsi della sorpresa per la nomina a consoli di due umili artigiani. Proseguendo, egli nominò gli altri: Giuseppe Tallinucci, Giovanni Carlini, Baccio Ciarpi, Gherardo Gherardi. Alla nomina di quest’ultimo notoriamente antifrancese dichiarato, i presenti si guardarono sorpresi. Accortosi della sorpresa, il Capitano Marlin fece una precisazione.
I cittadini da noi nominati sono liberi di accettare o meno 1’incarico che gli abbiamo assegnato. Per il bene comune di questa terra, nella quale siamo venuti come amici e non da conquistatori, il mio Governo desidera che esponenti di tutti i ceti sociali siano rappresentati nel Governo della terra barghigiana. II medico Carlini che se ne stava seminascosto si fece avanti e con un filo di voce disse: -Signor Comandante, io sono commosso e onorato della fiducia riposta nella mia modesta persona e Dio mi aiuti a non demeritarla.
Per il Signor Gherardi assente, intervenne il Proposto, affermando che egli senz’ altro avrebbe accettato. Seduta stante, ad un amanuense, il comandante francese dettò un’ordinanza che da quella sera le tre porte del castello rimanevano aperte giorno e notte, come da lungo tempo era nei desideri della popolazione.
I notabili fecero segni di assentimento. Con un’altra ordinanza nominò Domenico Tallinucci capo delle guardie di milizia civile. Diede ordine al banditore di annunciare in tutto il territorio che chiunque fosse in possesso di armi da fuoco e bianche, di denunciarle all’ufficio del Capo delle guardie nel palazzo dei Consoli.
Per i giorni che rimase a Barga, il capitano Marlin fu onorato ospite nel palazzo dei marchesi Angeli, in Piazza Santa Maria Novella che aveva di fronte il convento e la chiesa dei frati agostiniani. Gli ufficiali al seguito vennero accolti dalle altre famiglie dell’aristocrazia barghigiana, Mordini, Salvi, Bertacchi, Pieracchi, Menchi, e la truppa fra quelle benestanti di Porta Latria. La notizia di nomina a Consoli del fabbro Biagiotti e del fornaio Marchetti a Porta di Borgo venne accolta con vivaci manifestazioni di entusiasmo e diffusione di coccarde tricolori, simbolo di Libertà e di Eguaglianza. C’era nell’aria anche l’altra notizia, quella dell’apertura notturna delle porte che venne accolta quasi con indifferenza, perché scontata ed anche perché da quando c’era stata la veglia, le porte erano rimaste semiaperte.
La nomina a Consoli di due artigiani fu un avvenimento che ruppe la vita sociale barghigiana fino allora divisa fra diverse categorie in tanti scompartimenti chiusi. In alto quelli che comandavano, in basso tutti gli altri. Così si era andati avanti per secoli. Da diversi anni comunque il Governo Granducale aveva sentito la necessità di riformare l’ordinamento politico dello Stato, aprendo le cariche pubbliche a quanti per censo e capacità erano in condizioni idonee per esercitarle.
I Signori barghigiani sempre si erano opposti a quegli innovamenti e da Firenze si guardavano bene d’imporli con la forza. Se il popolo ancora non aveva avvertito il bisogno di emanciparsi dalla tutela dei signori e dalla sudditanza del clero, questa necessità era invece fortemente sentita e giornalmente vissuta da quegli intraprendenti industriali proprietari di gualchiere, filande, cartiere, i quali per meglio ampliare le proprie attività commerciali avevamo bisogno che nuove leggi abolissero anacronistici privilegi e secolari consuetudini. Il fidecommesso, il maggiorasco, impedendo la ripartizione del patrimonio familiare in parti uguali fra gli stessi figli eredi, limitava l’impiego quasi sempre al solo reddito agricolo.
Nelle riforme leopoldine, queste ed altre esigenze erano state contemplate, ma fuori dalle grandi città ancora non erano state applicate per la resistenza opposta dai tradizionalisti sul consenso dei quali poggiava il Governo Gran-ducale; mentre quelli che avrebbero volute le riforme, non avevano la forza politica per imporle.
I francesi, innalzando ovunque si presentavano, le bandiere della Libertà ed Uguaglianza, capovolgevano i rapporti di forza, mettendo le amministrazioni comunali nelle mani degli artigiani, dei professionisti, dei commercianti ed industriali, relegando i possidenti in posizioni di minoranza.
Le chiese che per secoli con i lasciti e i livelli si erano sproporzionatamente arricchite di terre, dai francesi vennero confiscate e vendute all’asta. Il clero minacciato da ben altre spogliazioni, come quella di artistiche suppellettili, quadri d’autore, arredi sacri, non fece apparente resistenza alla vendita forzata delle proprietà appartenenti alla mano morta.
II Clero, al quale era lasciata la massima libertà di culto,
pensava che il dominio francese non sarebbe durato a lungo, ragione per cui, le proprietà che adesso gli venivano sottratte con la prepotenza, un giorno gli sarebbero state restituite dagli incauti acquirenti.
A Barga, comunque, le innovazioni paventate dai possidenti non ebbero tempo di attuarsi per la lentezza con cui Firenze procedeva il passaggio dei poteri fra il dimissionario Governo Toscano e quello di nuova nomina francese. I francesi assillati dal bisogno di procurarsi denari liquidi, beni solidi, vettovaglie e foraggi, non si davano gran da fare ad attuare le idee di libertà e di eguaglianza delle quali si autoproclamavano portatori. Essi si servivano degli amici che avevano nelle città e nei paesi per tenere il popolo in continuo stato di eccitazione, facendogli inscenare pubbliche dimostrazioni attorno agli Alberi della Libertà, in modo di spaventare i signori ed il clero, mettendoli nelle condizioni di ricorrere ad essi per il mantenimento dell’ordine. A Lucca uno dei più infervorati e propagandisti della causa francese era l’Abate Antonio Severino Ferloni che aveva preso anche a stampare un giornaletto “La Staffetta del Serchio”.
La mattina del 4 febbraio 1799, giorno in cui a Lucca venne creato il primo governo democratico, l’abate Ferloni tenne nella cattedrale di S. Martino una omelia ispirata alla Libertà e all’Eguaglianza, ironizzando sulla libertà impressa nei pubblici stemmi che incisa sopra le pietre “non serviva fuorché di rimprovero al vostro avvilimento e vi teneva in ischiavitù. Voi siete liberi o Lucchesi. E’ caduto quel superbo colosso che misurava geloso i vostri passi e minacciava superbo perfino i vostri sospiri”.
Erano parole grosse e roboanti che se riflettevano i pensieri e i sentimenti di pochi illuministi presenti nel tempio, vanto e onore della mercatura lucchese,lasciavano peraltro indifferente la gente che lo gremiva attratta dalla curiosità dell’avvenimento.
Continuava l’Abate Farloni: “Sono svaporati quei titoli di illustrissimi, spettabili, eccellenze; oggi siamo tutti cittadini di una repubblica democratica. Come la Croce è 1’emblema della nostra rigenerazione spirituale operata da Gesù Cristo, così l’Albero della Libertà è il simbolo della nostra rigenerazione politica. Quell’albero piantato per la prima volta presso la Senna ha steso rami e radici sino alle sponde del Serchio. Quell’albero assicura che non siete più schiavi, ma liberi, che la Nazione Lucchese non è più dipendente dall’arbitrario volere di centocinquanta despoti.
Ancora parole che non suscitavano né idee, né immagini riuscendo incomprensibili o esagerate a chi le ascoltava, i quali avrebbero potuto domandare all’Abate che differenza passava fra il cittadino e l’eccellenza se con la repubblica democratica le condizioni delle persone rimanevano le stesse. Se la gente che letteralmente gremiva la cattedrale di San Martino, dopo l’omelia dell’Abate usciva di chiesa frastornata, la stessa accolse con entusiastici evviva le grida che i vari banditori, finito di rullare i tamburi, annunciavano nei quartieri della città che il Monte Pegni restituiva gratis alla povera gente gli oggetti pignorati; e i debiti contratti con la Cassa dell’Abbondanza per prestazioni annonarie, erano tutti estinti. Altri provvedimenti bene accolti dai lucchesi furono l’abolizione della tortura, l’abolizione dei fidecommessi, il regolamento dei livelli di mano morta, la libertà di stampa, la revisione dei processi di carattere politico.
Una delle prime ordinanze della Giunta popolare di Barga fu quella di abolire il divieto alla gente di fuori porta di frequentare nei giorni festivi le osterie del capoluogo durante la celebrazione delle messe.
Negli ultimi anni il divieto era caduto in disuso ma la legge continuava ad esistere. Se i consoli furono subito consenzienti nel cancellare la proibizione che ormai più non esisteva, vivace fu invece la discussione fra di essi sulla proposta formulata dal fornaio Marchetti e dal fabbro Biagiotti di abolire il mercato chiuso dei generi portati dai montanari a vendere nel capoluogo. Era consuetudine codificata dal costume che i prodotti della montagna, legna da ardere, carbonella, carbone, e d’estate funghi, fragole, lamponi, macole, di portarli a vendere al mercato tre volte alla settimana, nella Piazza delle Erbe. I prodotti concentrati in un solo luogo di vendita, favoriva i compratori che avendo maggiori disponibilità di scelta, potevano meglio lesinare sul prezzo. Questa innovazione come altre intese a rendere più libero il commercio, facilitare i passaggi di proprietà, migliorare le vie di comunicazione, creare nuove scuole per l’alfabetizzazione del popolo, rimasero effimeri proponimenti che vennero spazzati via dal sopraggiungere di avvenimenti che ancora una volta capovolsero la situazione politica italiana.
Nel marzo del 1799, nelle Puglie erano sbarcati i Russi al comando del generale Sawaroff e nelle Calabrie il cardinale Fabrizio Ruffo, passando da un paese all’altro, ingrossava lo sparuto esercito dei suoi proseliti e giungendo vittorioso a Napoli forzava il generale francese Mac Donald a sgomberare la Campania, il Lazio, ripiegando in Toscana e poi a Genova dove rimase assediato dagli Austro-Russi. In pochi mesi il dominio francese in Italia era crollato. Fra il marzo e il luglio 1799 furono ristabiliti in Italia i vecchi governi per opera della Russia e dell’Austria.
La sera dello stesso giorno in cui dall’asta del palazzo del Pretorio e dei Consoli in Via di Mezzo, venne ammainato il tricolore ed issata la bandiera toscana e rimosse le insegne “Libertà ed Eguaglianza” ai primi rintocchi della campana dell’ora di notte, le tre porte del Castello vennero chiuse. Il popolo che pochi mesi prima aveva vegliato per tenerle aperte, iscenò una dimostrazione di allegria per il ritorno dei passati governanti, gridando evviva all’indirizzo di Ferdinando III ed abbasso la Francia.
Giovani appartenenti a ricche famiglie residenti a Porta Reale, Via di Mezzo e Via del Pretorio, facendosi lume con le torce resinose, si diressero in Piazza del Mercato con l’intenzione di andare a fare una chiassata alle case dei Consoli popolari Biagiotti e Marchetti, Giunti alla Volta del Palazzo dei Menchi si arrestarono indecisi se proseguire o ritornare indietro, temendo che a Porta di Borgo ci fosse Domenico Tallinucci ad aspettarli con i suoi; invertirono la marcia e sempre gridando evviva il Granduca e abbasso la Francia, si diressero all’osteria del Togno sotto la Volta del Pepparello. Avvertito, l’oste fece in tempo a mettere la serranda alla porta barricandosi dentro.
C’erano tra i dimostranti giovanotti intenzionati a provocare disordini, i quali, avendo verso il Tallinucci motivi di invidia, gelosia e rancore, non potendoli sfogare contro di lui, si rifacevano sull’amico sostenitore. Il Tallinucci che li aveva aspettati a Porta di Borgo, come lo informarono che i dimostranti si erano diretti alla Volta del Pepparello, con il Nanni e il Tranquillo che facevano parte della guardia civica, precedendoli di alcuni passi, in fretta, si diresse da quella parte. Tra il chiarore rossastro delle torce, qualcuno riconoscendolo si mise tosto a gridare:
-Sta arrivando il Domenico, sta arrivando il Domenico.
Avvenne una fuga generale.
Per tutta la notte, ronde di guardie civiche, armate con schioppi da caccia, passeggiarono da una porta all’altra
per le silenziose strade e carraie. La mattina presto il Proposto Don Francesco Menchi, si presentò al palazzo dei Consoli che si trovava in Via di Mezzo a pochi passi dal teatro dell’Accademia dei Differenti. Come il Commissario Domenico Tallinucci lo vide entrare, sorpreso gli andò incontro.
-Non mi aspettavi, vero?- gli chiese il Proposto.
-No, non l’attendevo. E’ forse venuto a prendere le consegne?- disse il Tallinucci con malcelata ironia.
-Non a me le devi dare, ma al comandante imperiale che attendiamo quest’oggi o al più tardi domani.
-Non sarò io a dargliele- disse il Tallinucci.
-Perché no?
-Perché non ho nessuna voglia di farmi arrestare e processare. Gli austriaci e i russi non sono francesi. Dove sono entrati hanno arrestato e fucilato.
-Non è possibile. Certamente si sarà trattato di delinquenti comuni- disse il Proposto.
-A Lucca- rispose il Tallinucci -hanno dato la caccia all’Abate Ferloni e se facevano tanto di mettergli le mani addosso, gliela facevano pagar cara, per aver fatto innalzare in Piazza San Michele l’Albero della Libertà.
-A Barga non l’avete fatto!
-Non ce ne fu bisogno per noi bastò aprire le porte per capire che qualcosa era cambiato.
-Nessuno ha motivo di lagnarsi di come vi siete comportati in questi mesi. Non avete mancato di rispetto a nessuno- disse il Proposto.
-Ciò non ha impedito che ieri sera se non si interveniva in tempo, signorini di Porta Reale non sfasciassero l’osteria del Togno. Se ancora non sono partito per Modena con i miei uomini, è per impedire ai signorini e ai loro ruffiani di rifarsi sul Biagiotti ed il Marchetti ed altri nostri amici di Porta di Borgo e della Compagnia di San Rocco. Fintanto che noi siamo qui, quelli non hanno l’ardire di muoversi.
-Sono stato informato di quanto è successo ieri all’ora di notte, e se non mi avessero subito avvertito che tu li avevi fatti scappare, sarei sceso col mio servo alla Volta del Pepparello.
-Lei sarebbe sceso?- chiese il Tallinucci meravigliato.
-Certo. Le prepotenze non mi garbano. La sera della veglia, tu ad una certa ora mandasti la gente a dormire e noi che vegliavamo impauriti dietro le imposte, tirammo un sospiro di sollievo.
-Non pensavo affatto d’essermi creato tanto merito- disse il Tallinucci.
-Domenico, ti conosco fin da quando mi servivi la Messa. Puoi rimanere a Barga assieme ai tuoi. Rispondo io al comandante imperiale per tutti voi.
-Grazie, don Francesco, Noi alle undici lasceremo Barga, diretti a Modena, dove tutti i cisalpini si stanno concentrando. Abbiamo chiesto al Biagiotti e al Marchetti divenire con noi. Non hanno voluto. Li capisco hanno famiglia. Se vorrà avere per quei galantuomini e loro familiari dei riguardi, gliene saremo grati.
-Li avrò, stanne certo- rispose il Proposto mettendogli paternalmente una mano sulla spalla. -Dove vi fermerete questa sera?
-Alle tagliole- rispose Tallinucci.
-Ebbene, porterai al Parroco che è un mio amico, il biglietto che adesso gli scrivo. Che Iddio vi protegga, ed uscì in fretta lasciando il comandante della Guardia Civica barghigiana senza parola.
Non essendosi presentato nessuno a prendere le consegne, il Tallinucci chiamò nell’ufficio il vecchio alfiere rimasto nominalmente alle sue dipendenze.
-Giovanni, venga qua, riprenda il suo posto. Ora tocca a lei con le sue guardie badare all’ordine, fino a quando non arriveranno gli imperiali.
-Tu parti?
-Fra due ore.
-Solo?
-No, con i miei della guardia e chi vorrà seguirci.
-Andate a Castelnuovo?
-E’ già da ieri nelle mani degli imperiali, prenderemo per i monti, in tre giornate saremo a Modena. Non è ancora detta l’ultima, Napoleone è a Parigi.
-Domenico non ti fare illusioni; per i francesi ormai è finita.
-Può darsi che abbia ragione, io però ancora non ci credo.
Alla spicciolata al Palazzo dei Consoli arrivarono una ventina fra giovani e qualche anziano; tra questi il padre di Domenico, il medico Francesco Tallinucci, i fratelli Giuseppe e Luigi. Sui tre muli caricarono schioppi, bariletti di polvere e cassette di palle di piombo, vettovaglie, coperte ed indumenti. Quando furono pronti, Domenico si mosse. Dietro lui venivano un gruppetto di giovani armati con i fucili pronti allo sparo, seguivano i tre robusti muli della famiglia Tallinucci e dietro di essi chiudeva il corteo un gruppo di armati. La gente di Via di Mezzo, Piazza Santa Maria Novella, del Mercato, li vide passare sbirciando fra le fessure delle imposte semichiuse. Erano momentacci. Tutti avevano paura. Paura dei francesi, degli imperiali, paura di compromettersi simpatizzando per gli uni o per gli altri. Le notizie che di fuori i vetturali portavano a Barga, non battevano punto bene, l’incognita maggiore erano i russi dei quali si diceva fossero dei barbari. Antonio Gaetano Manghesi compose una cantata pastorale, dedicandola al canonico Vincenzo Cardosi “Pubblicata in occasione d’essere state discacciate dall’Italia le devastatrici orde francesi, dalle gloriose armate Austro-Russe”.
Giungendo da Firenze a Barga il nuovo Vicario fece subito arrestare i consoli Biagiotti e Marchetti ed altri elementi considerati pericolosi, dimoranti a Porta di Borgo. I consoli Dott. Carlini, Ciarpi e Gherardi furono messi agli arresti domiciliari. Il “Maire” Bertacchi ed il console Tallinucci non si fecero trovare.
Ritenuta Barga una posizione del tutto priva di importanza strategica sguarnita di truppe nemiche, gli austro-russi neppure vi si fecero vedere.
Al nuovo Vicario giunto da Firenze con precisi ordini repressivi, cadde sulle spalle l’ingrato compito di fare le vendette di quanti denunciavano come pericolosi giacobini, dei cittadini innocenti. In data 12 ottobre 1799, da Firenze gli giungeva l’ordine “siano sequestrati i beni degli emigrati toscani fratelli Giuseppe e Luigi, figli del Dottor Francesco Tallinucci, dimoranti in questa terra. (Firmato Giuseppe Grenetiere Capo di Polizia)”.
La notizia che il 18 novembre 1799, Napoleone Bonaparte, assieme al fratello Luciano aveva disciolto il Direttorio proclamandosi I Console della Repubblica, giunse in Toscana come una doccia fredda sui calorosi entusiasmi di coloro i quali illudendosi sul definitivo ritorno ai vecchi ordinamenti, avevano avuto la mano pesante nel punire gli amici dei francesi. L’incognita dell’immediato futuro veniva adesso ingrandita dalla popolarità del Generale Bonaparte che alle vittoriose campagne d’Italia, si erano aggiunte quelle dell’Egitto dove eludendo la sorveglianza in mare della potentissima flotta inglese, era riuscito a sbarcare il 9 ottobre 1799 a Capo Frejus vicino Nizza.
L’improvviso ritorno in Francia del Bonaparte che si era messo subito ad organizzare un’armata da condurre in Italia, indusse le Autorità Toscane ad essere blande nell’inquisire e processare quelli che pochi mesi prima avevano collaborato con i francesi. A Barga vennero posti in libertà, in attesa di processo, una quindicina di persone rinchiuse nelle carceri dell’Arringo, fra i quali i due assessori popolari Biagiotti e Marchetti ed il giovane Teodoro Conti ed altri giovani delle frazioni di San Pietro in Campo, Castelvecchio, Filecchio e Fornaci.
Le porte rimasero chiuse. La vita nel Castello e nei subborghi fuori delle mura riprese come prima dell’arrivo dei francesi a Castelnuovo. Fra i simpatizzanti di questi ed i loro avversari si addivenne ad un tacito compromesso in base al quale, da una parte e dall’altra si rimandava la effettiva direzione politica ed amministrativa del Comune, a dopo lo scontro fra Francesi e Austro – russi, che si stava preparando. Da come si erano svolti e succeduti gli avvenimenti nessuna delle due parti ostentava sicurezza.
Se i filo francesi speravano sul ritorno del Bonaparte, gli altri molto contavamo sulla presenza in Italia dei Russi, alleati degli Austriaci e sull’aiuto della flotta inglese che assediava dal mare Genova, dove i francesi si erano asserragliati. Un anno prima la flotta inglese, al comando dell’ammiraglio Nelson, nella Baia di Abukir affondò quella francese che aveva trasportato in Egitto l’Armata.
Il sequestro delle proprietà terriere ed immobiliari delle famiglie Tallinucci, Bertacchi e di altri fuorusciti non divenendo esecutivo, la vendita dei beni venne rimandata ad una data da stabilirsi. Le autorità vicariali uniformandosi allo stato d’animo della gente che era di generale attesa senza ostentare pubblicamente sentimenti di simpatia per gli imperiali o per i francesi, andavano prendendo un benevolo atteggiamento di neutralità.
Questa volta dai liberali italiani, il ritorno offensivo dei francesi in Italia, non venne accolto col medesimo entusiasmo di quando quattro anni prima erano giunti cantando gli inni della rivoluzione, innalzando nelle piazze dei paesi gli alberi della libertà, inneggiando alla eguaglianza per cui tutti erano divenuti cittadini. Molte di quelle illusioni di allora via via si erano andate mutando in amare constatazioni le quali facevano apparire i francesi arroganti rapinatori di opere d’arte, esosi vessatori di tributi fiscali. In un anno di tempo a ridare credito ai francesi che avevano perduto, pensarono gli imperiali, rimettendo in uso i vecchi ordinamenti, i fidecommessi, la gogna, la tortura, restituendo al clero i beni della mano morta, accrescendo il prezzo del sale, dando in appalto a privati il gioco del lotto, il commercio del tabacco e dei liquori, istituendo un’imposta straordinaria del 5 per cento sul reddito complessivo dei beni mobili ed immobili. Questo esoso fiscalismo in un primo momento fece attenuare l’amaro ricordo lasciato dai francesi, finendo per farli rimpiangere. La Francia in definitiva, nonostante le razzie e le prelevazioni rappresentava sempre un fermento di nuova vita che faceva sperare in meglio. L’Austria invece riportando la vita dei popoli al più retrivo passato, li condanna per sempre all’immobilismo.
Anche a Barga in quei lunghi mesi invernali fino a primavera inoltrata, ognuno nel proprio ambiente parlava del prossimo scontro fra imperiali e francesi, formulando favorevoli pronostici per gli uni o per gli altri, a seconda dei sentimenti di chi discorreva istruendo coloro che lo stavano ad ascoltare.
Il gruppo dei barghigiani che con Domenico Tallinucci si erano uniti a Modena con i francesi, abbandonata la città si erano ritirati sulla sponda destra del Po, in un paese fra Piacenza e Cremona, dove si erano accantonati in una cascina in attesa della venuta del Bonaparte in Italia. Nel mese di maggio del 1800, attraversando il San Bernardo ancora innevato, Bonaparte, superato il Forte di Bard spinse rapidamente su Milano, sulle retrovie del nemico che si trovava fra Stradella ed Alessandria. Il 14 giugno il generale austriaco Van Melas è sconfitto a Marengo e due giorni dopo capitolata ad Alessandria, abbandonando tutte le conquiste conseguite in Italia dagli Austro-Russi, durante la campagna 1799.
La notizia della fulminea vittoria napoleonica a Marengo, villaggio a pochi chilometri dalla periferia di Alessandria, a Barga venne accolta quasi in silenzio, ma con sollievo dalla gente di Porta di Borgo e con demoralizzante sgomento dagli abitanti di Via di Mezzo, di Via del Pretorio e di Porta Reale. Con la notizia della sconfitta degli imperiali, pochi giorni dopo, da Firenze, giunse al Vicario ordine di non muoversi dal territorio del vicariato, garantendo di persona l’ordine pubblico, ripristinando subito i precedenti ordinamenti che erano stati soppressi. Quella sera, quando dalla torre campanaria si diffusero nella valle i rintocchi dell’ora di notte, alle tre Porte vi fu una breve animazione di curiosi subito dispersa, allorché i guardiani dissero d’aver ricevuto ordine dal Gonfaloniere di tenerle aperte. E d’allora non furono più chius
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